"VIRTUALISMI" di Gianluca Marziani
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Palazzo Collicola Arti Visive, Spoleto, 2012)

Partiamo da un limite che non è mai una limitazione. Iniziamo dalla pittura come atto unico che forza il limite della figurazione, conducendo l’opera sull’abisso che separa la coscienza delle avanguardie da un’azione rinnovatrice e,quindi, rischiosa. Indagare il quadro significa rischiare come non accade in altri linguaggi, proprio perché da qui si ricavano le fondamenta arcaiche dell’immagine, il DNA della creazione quale atto visivo rivoluzionario. Olio e acrilico, sia ben chiaro, resistono a qualsiasi moda in quanto abito favorito della veggenza e dell’intuito concettuale (distinguendo tra la pittura col suo“intuito concettuale” e le arti installative con la loro“ragione concettuale”). Eppure quel quadro li ascolta eccome i rumori del presente, si incuriosisce davanti alle evoluzioni scientifiche, al mondo digitale, alla biologia molecolare, all’astronomia, alla chimica, alla fisica quantistica… la pittura, insomma, non si rassegna al suo status semplificato (un supporto, uno strumento, i materiali) e registra il progresso, lo assembla nei suoi codici elaborativi. Il modo in cui il dipingere cattura il nuovo può, di conseguenza, avere esiti differenti: da una parte utilizzando le innovazioni in termini tecnici, ad esempio con le combinazioni tra manualità ed elettronica (esemplare Cristiano Pintaldi che adotta processi videologici e tecnicismi manuali); dall’altra ricreando percorsi figurativi che raccontano zone scientifiche con modi “classici” (esemplare Alberto Di Fabio che parla di organismi cellulari o costellazioni attraverso raffinati approcci orientali); o ancora elaborando una pittura come sistema e matrice, quella che voglio raccontarvi attraverso il lavoro di Fabrizio Campanella.

Sistema e matrice
Una conferma prima di tutto: Campanella dipinge da decenni e continua a farlo con lo stesso rigore degli esordi, coerente con le storie da cui nasce ma curioso e produttivo davanti ai rinnovati confini tecnologici. Non credo che certe azioni sul limite fioriscano dall’improvvisazione, al contrario sento la valenza di qualcosa che sedimenta, il valore di un’esperienza che accresce. Diciamo che la pittura ha esigenze impellenti per non perdersi nella citazione passiva; di conseguenza serve una memoria attiva per dare prospettive ai generi e al loro riplasmarsi sul tempo odierno. A questo punto un’altra conferma: Campanella quella memoria la frequenta per aprirsi oltre il telaio, verso direzioni rischiose ma produttive. Ha scelto di confrontarsi con avanguardie e individualità, dal Futurismo a Peter Halley, dal Suprematismo al Minimalismo pittorico, e potrei andare avanti con decine di richiami plausibili. Oggi sta adottando un atteggiamento attivo che non cita il passato ma somma i riferimenti per metabolizzarli dentro un codice “altro”. Ed è qui che inizia il suo approccio tra reale e virtuale. E’ qui che nasce il progetto VIRTUALISMI.

(scrivevo ieri…)
…La storia della pittura parte dalla linea, da un incipit basilare che determina le possibilità infinite dello sguardo. Campanella, prediligendo il ritorno allo scheletro primordiale, ha concesso alla linea il tappeto ritmico della costruzione. La linea come modulo che determina geometrie adiacenti, sovrapposte, combacianti e conflittuali. L’occhio e le sue leggi retiniche registrano le linee, sentendo l’orchestrazione degli andamenti, delle gamme cromatiche, dei volumi bidimensionali. Tutto ha una sua rigorosa entropia, così come il rapporto tra lontano e vicino si modifica in modi sempre diversi, a seconda dell’impatto ottico di chi guarda...

(scrivevo ieri…)
…La linea mantiene l’ossatura del quadro, gli angoli sviluppano il sistema muscolare della forma, l’elastica disposizione al respiro geometrico di ogni modulo. Forza centrifuga e gravitazionale spingono gli elementi in dentro o in fuori, a destra o a sinistra, in alto o in basso: un ritmo che nasce dal rapporto automatico tra linee ed angoli, tra la sicurezza della forma (linea) e il passaggio evolutivo, inaspettato, fondamentale (angolo)…

Ritorniamo al presente per spiegare una pittura come sistema e matrice. Ancora meglio, lasciamo un attimo il testo e andiamo tra le pagine che illustrano le opere. Al principio di ogni sequenza troverete un quadro pittorico, la cosiddetta matrice che permette l’ideazione di ulteriori passaggi dentro un sistema iconografico dalle potenzialità enormi. Il secondo passaggio è una stampa digitale che elabora la matrice quadrata (in questa serie la pittura è sempre sul quadrato, formato ideale per comprimere un elemento figurativo) e ne rende più complessa la trama geometrica. Il terzo passaggio deborda verso la moltiplicazione della matrice, fino a creare pattern che si trasformano in carta da muro, pavimento, superficie abitabile. E qui arriva il quarto passaggio, quello dell’estensione architettonica, il pattern come sistema geometrico per una versione funzionale del materiale pittorico. Ovvio che lo sviluppo del quarto passaggio implichi un approccio per adesso virtuale a cui dovranno seguire, nei casi opportuni, realtà d’investimento ben superiori a quelle dei primi tre passaggi. Ma ciò che conta, come sempre, è la chiave ideativa dietro l’azione, la visione adulta di una teoria che ridefinisce le coordinate dell’immagine, il contenuto iconografico, la sua valenza tra memoria e applicazione al reale.

Primo passaggio: pittura
Secondo passaggio: stampa digitale
Terzo passaggio: pattern murale
Quarto passaggio: sviluppo architettonico

Matrice e sistema stanno dentro i quattro passaggi appena indicati, direi che spiegano con efficace pregnanza cosa intendevo a proposito di una pittura che forza il limite della figurazione. E’ un quadro che si mette in gioco oltre i suoi codici formali, capace di trasformare la forma in esperienza sensoriale, dando alla pittura una necessaria complessità.

Codice figurativo
A questo punto vorrei introdurmi nel codice figurativo che caratterizza Campanella. Capire meglio cosa bolle nella sua pentola, il come e il perché dietro certe formule visuali. Anche qui parto da un mio frammento di testo, da una ricognizione relazionale che mi spingeva verso la musica elettronica, probabilmente quanto di più vicino al codice semantico del nostro artista.

(scrivevo ieri)
…Le zone geometriche dialogano su uno stesso livello, creando continuità tra colori e superfici a contrasto. La sintesi crea così intonate tensioni armoniche, tesse le corde dissonanti sulle matrici di uno stesso spartito. Il risultato suona con implicite musicalità elettroniche, simile a quanto compie la composizione digitale di alcuni musicisti sintetici. Faccio un esempio noto, ovvero, Aphex Twin, il più famoso dei compositori radicali, un visionario che manipola complesse gamme elettroniche. Il suo stile è affilato e saettante, metallico e mercuriale. I brani scorrono come falde telluriche che grattano i propri bordi sotto la crosta terrestre. Senti lo scivolamento e la scalfitura, l’incastro e l’incagliarsi fino allo strattone della frattura. Aphex Twin agisce per metriche dissonanti eppure sinergiche, a conferma di un modello dove la sequenza ritmica nasce dalla reinvenzione dei suoni urbani, dallo scambio energetico tra caos reale e flusso cerebrale. Certa musica elettronica è come se avesse sintetizzato il rumore della strada, del brulicare massificato, dello sviluppo postindustriale e, al contempo, dei complicati “rumori” nel cervello. Subito dopo ripenso alla pittura di Campanella e vedo la trasposizione segnica del flusso sonoro di una città caotica, di un movimento vitale che si asciuga nelle linee andamentali del mondo. Ma ci vedo anche lo spazio cerebrale che sintetizza l’esperienza, il luogo interiore dove azioni e reazioni sviluppano dati significanti. La griglia dei quadri incastra gli elementi in uno scivolamento tellurico sotto controllo perimetrale. L’opera tende oltre il bordo eppure si trattiene nella sua naturale parzialità. Vorrebbe esplodere ma capisce il suo destino bidimensionale, lasciando a noi fruitori la possibilità (analitica ed emozionale) di riportarla nelle architetture del reale…

Inutile fare distinzioni tra figurazione e astrattismi, un vantaggio di questi anni è proprio l’aver spazzato via certi dogmatismi linguistici. Qui parlerei di figurazione sintetica che nasce da memorie futuriste e attraversa il Novecento fino al presente dei circuiti elettronici, del multiculturalismo, del virtuale che diviene reale. Campanella sta sviluppando un codice figurativo aperto, dove la matrice incarna l’archetipo e la memoria storica; e dove il sistema incarna la valenza contemporanea del processo elaborativo.

Palindromi
Un dato interessante è costituito dai palindromi che l’azione digitale applica al quadro di partenza. Non si tratta di un passaggio tecnico ma della coscienza multiculturale di Campanella. I pattern moltiplicati richiamano le decorazioni marocchine e islamiche, l’architettura di Jean Nouvel, Daniel Libeskind e Herzog & de Meuron, il design di Ronan & Erwan Bouroullec, Marcel Wanders e Ron Arad, la musica elettronica di scuola Warp e Anticon… un miscuglio senza apparente omogeneità, a conferma di un’attitudine trasversale che ormai attraversa la coscienza degli scambi transcontinentali, l’informazione rapida, la caduta delle ideologie politiche, la nascita di codici ulteriori. Quei palindromi confondono lo sguardo mentre ci risucchiano dentro il cinetismo stabile che li caratterizza. Rendono il pattern una domanda da accertare, un prologo inesploso, una verifica incerta. Sono lo spazio visionario che si realizza negli ambienti, quasi a richiamare l’ambizione muralista di Mario Sironi ma con soluzioni senza naturismo figurativo, rendendo bidimensionale il codice geometrico che in passato riguardava la scultura pubblica. Ecco, mi piace pensare ad uno spostamento iconografico dalle opere volumetriche (Mario Staccioli, Pietro Consagra, Andrea Cascella…) alle superfici bidimensionali: ed è qui che Campanella colloca i suoi sviluppi virtuali in chiave scultorea (sesto passaggio), secondo progetti ambientali che occupano il paesaggio con forme di sintesi geometrica. Vedevo i suoi rendering e li confrontavo con le sculture che arricchiscono le città italiane, quasi tutte legate a codici d’astrazione tra informale e geometria. Se alcune ancora comunicano dipende dal tipo di simbologie che il disegno ha creato, altrimenti si perdono nel formalismo dell’esercizio astratto, specchio di un certo periodo ma ormai datato rispetto alle evoluzioni del linguaggio. Campanella si allaccia a quella tradizione per fare un passo avanti: da una parte restando adiacente ai codici di certe geometrie; dall’altra riplasmando dettagli, colori e simbologie, così da evidenziare un’energia tra la pittura e il design fuoriserie, dove si sta dirigendo la sua sete di sperimentazione.

Quinto elemento: design fuoriserie
Vi ho descritto i quattro passaggi (il sesto è il completamento ideativo) che sviluppano la matrice pittorica di Campanella. In realtà desidero chiudere sul quinto passaggio, legato alla produzione di oggetti numerati, realizzati fuori dal sistema industriale. Ribadisco l’artigianalità per dare agli oggetti la valenza scultorea che meritano, ancor meglio per definire una pittura volumetrica che si trasforma in tavolo, lampada, tappeto… La matrice resta quella iniziale del quadro, ovulo riproduttivo che fertilizza il sistema e crea l’ampliamento dei passaggi. A differenza dello sviluppo architettonico, però, si tratta di creazioni che nascono più facilmente, seguendo un imprinting artigianale che delinea la chiave funzionale della matrice pittorica. Nulla di nuovo, direbbe qualcuno. Nulla di nuovo, confermo nero su bianco, vi basti scorrere gli ultimi dieci anni per trovare una miriade di legami tra arte e design. Però una sostanziale anomalia esiste: e riguarda la stretta relazione nei passaggi esecutivi, una sorta di continua integrazione tra il prima e il dopo. E’ come se guardassimo una medesima opera pittorica dove la pelle geometrica si adatta, trasforma, mimetizza. Ipotizzo una biologia interna che scorre sotto la pelle dei sei passaggi virtualistici. Tra virtuale e reale. Senza virtuosismi. Col vizio sano della virtù iconografica.

Primo passaggio: pittura
Secondo passaggio: stampa digitale
Terzo passaggio: pattern murale
Quarto passaggio: sviluppo architettonico
Quinto passaggio: design fuoriserie
Sesto passaggio: scultura ambientale

 
     
     
     
     
     
     
 

"LA DISSONANZA DEL FLUSSO" di Gianluca Marziani
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Studio Soligo, Roma, 2008)

“L’evoluzione dell’arte contemporanea è un’evoluzione concettuale: ‘concettuale’ come capacità di attingere, liberamente, a una serie di risorse, visive e linguistiche, per ricrearle e rivitalizzarle nell’identità di un passaggio intermedio di ‘appropriazione’ che l’individuo compie, rispetto alle cose, nel momento in cui le trasloca da una mera acquisizione a una coscienza vera e propria.” Parole di Fabrizio Campanella che, come direbbe qualcuno, parte bene e affonda il coltello visivo nella carne morale dell’arte. Leggere queste frasi dal resoconto (autoanalitico) di chi ha scelto il diapason ossessivo del quadro, implica un significato ancora più netto, qualcuno direbbe definitivo ma anche necessario visti gli accadimenti recenti nelle speculazioni attorno ai linguaggi. Non c’è dubbio che l’esaurimento tematico sia una realtà oggettiva, tuttora gli artisti lavorano attorno ad alcuni frangenti “eterni”: ritratto, paesaggio, nature contemporanee, cronaca e storia. La differenza, semmai, riguarda la capacità combinatoria di mescolare i temi (e i linguaggi) in maniera coerente, aprendo le connessioni e le moltiplicazioni di senso. Nel caso di Campanella noto un parallelo rigore tra le parole con cui si esprime e la pittura con cui annuncia il lato pratico oltre la teoria dialettica. Sfoglio i precedenti cataloghi, analizzo sul monitor diverse opere che mi riportano allo scorso decennio: costante è l’approccio di sintesi, la natura cromatica, il ritmo sonoro che avvolge ogni tela prodotta. Un’esperienza identitaria attraverso il diario metabolico del flusso pittorico. Un modo per affermare il proprio spazio nel contesto artistico, partendo dai limiti generali, passando per la coscienza del proprio particolare, fino alla ricostruzione di una tesi individuale.

Adesso avviciniamoci ai cardini su cui si modula la pittura di Campanella. Le opere scorrono con la felice comunanza delle parentele strette e dialoganti, una dopo l’altra creano rimandi e passaggi energetici, inversioni e somiglianze. Occupano le tessere ideali di un unico mosaico andamentale: viste in retrospettiva diventano il diapason organico della vita di Campanella, il diario di trasbordo interiore, la versione asciutta dell’esperienza tra indole e attitudine soggettiva.

La formulazione è piatta, nel gergo internazionale si definisce flat. Un termine dal suono quasi liquido che racchiude un modello stilistico con ascendenze digitali, sorta di filiazione necessaria tra la cultura elettronica e l’immaginario cresciuto durante gli anni Novanta. Era ovvio che il computer non cambiasse solo le nostre vite pratiche, le relazioni, la comunicazione. Doveva per forza plasmare l’immaginario collettivo, creando un dialogo formale tra la realtà in chiave di pixel e la lettura del mondo attraverso nuovi codici estetici. Per alcuni artisti tale filiazione corrisponde agli intenti dichiarati, ad un processo di legame esplicito con la cultura digitale. Per altri si tratta di un’influenza subliminale che agisce in chiave incosciente, sotto il testo delle proprie attitudini. Campanella mi sembra corrisponda al secondo caso, esempio lampante di un dipingere che non ha nulla di elettronico ma che dimostra evidenti influenze della cultura digitale. Una filiazione in termini di sintesi e flusso, secondo andamenti dinamici dei moduli linea e angolo che delineano lo scheletro metodologico dell’autore.

Sintesi
L’architettura dei quadri evidenzia un meccanismo di sintesi elaborativa che si lega ad una stesura totalmente piatta. Le zone geometriche dialogano su uno stesso livello, creando continuità tra colori e geometrie a contrasto. La sintesi crea così intonate tensioni armoniche, tesse le corde dissonanti sulle matrici di uno stesso spartito. Il risultato suona con implicite musicalità elettroniche, simile a quanto compie la composizione digitale di alcuni musicisti sintetici. Faccio un esempio noto per dare la misura del raffronto: prendiamo Aphex Twin, il più famoso dei compositori radicali, un visionario che manipola complesse gamme elettroniche. Il suo stile è affilato e saettante, metallico e mercuriale. I brani scorrono come falde telluriche che grattano i propri bordi sotto la crosta terrestre. Senti lo scivolamento e la scalfitura, l’incastro e l’incagliarsi fino allo strattone della frattura. Aphex Twin agisce per metriche dissonanti eppure sinergiche, a conferma di un modello dove la sequenza ritmica nasce dalla reinvenzione dei suoni urbani, dallo scambio energetico tra caos reale e flusso cerebrale. Certa musica elettronica è come se avesse sintetizzato il rumore della strada, del brulicare massificato, dello sviluppo postindustriale e, al contempo, dei complicati “rumori” nel cervello. Subito dopo ripenso alla pittura di Campanella e vedo la trasposizione segnica del flusso sonoro di una città caotica, di un movimento vitale che si asciuga nelle linee andamentali del mondo. Ma ci vedo anche lo spazio cerebrale che sintetizza l’esperienza, il luogo interiore dove azioni e reazioni sviluppano dati significanti. La griglia dei quadri incastra gli elementi in uno scivolamento tellurico sotto controllo perimetrale. L’opera tende oltre il bordo eppure si trattiene nella sua naturale parzialità. Vorrebbe esplodere ma capisce il suo destino bidimensionale, lasciando a noi fruitori la possibilità (analitica ed emozionale) di riportarla nelle architetture del reale.

Flusso
La metrica del dipingere sembra instabile e circolante, come se scivolasse lungo correnti multidirezionali, fuori dai confini del telaio, in progressione ritmica nel decorso sequenziale dei quadri. Le geometrie hanno fondamenta sismiche che bilanciano la fermezza tipicamente pittorica. Il risultato si muove lungo quel motore sonoro che spiega la natura emozionale delle strutture. Ovvio un chiaro rimando alle vicende futuriste, in particolare alle ricerche di Luigi Russolo tra suono e pittura. Altrettanto ovvio riavvolgere le citazioni al neoplasticismo di Piet Mondrian. Fino ad alcuni archetipi degli anni Cinquanta e Sessanta, verso Barnett Newman, Frank Stella, Ellsworth Kelly… L’elenco sarebbe comunque più lungo, comprensivo di esiti italiani, in particolare di Piero Dorazio e Sergio Lombardo (quest’ultimo in termini solo formali visto l’interesse per una pittura stocastica dove contano altre metodologie d’approccio e fruizione). Fermiamoci ai nomi indicati per comprendere il senso di uno stimolo indotto (la citazione non citata), di un impianto concettuale che guida l’elaborazione estetica. La pittura di Campanella, cosciente della ragione storica, agisce sul flusso in modo ambiguo, dando indizi che vengono continuamente smentiti, riconfermati, ribaltati. Il destino di certa pittura sta proprio nella sua molteplicità semantica, nel complesso intreccio di domande dialoganti.

Linea
La storia della pittura parte dalla linea, da un incipit basilare che determina le possibilità infinite dello sguardo. Campanella, prediligendo il ritorno allo scheletro primordiale, ha concesso alla linea il tappeto ritmico della costruzione. La linea come modulo che determina geometrie adiacenti, sovrapposte, combacianti e conflittuali. L’occhio e le sue leggi retiniche registrano le linee, sentendo l’orchestrazione degli andamenti, delle gamme cromatiche, dei volumi bidimensionali. Tutto ha una sua rigorosa entropia, così come il rapporto tra lontano e vicino si modifica in modi sempre diversi, a seconda dell’impatto ottico di chi guarda. Potremmo dire che ogni linea varia la propria velocità in relazione al modulo geometrico e al colore del singolo modulo. Fino a trasformare l’ossatura vertebrale (l’insieme di linee) in un corpo motorio dalle molteplici implicazioni.

Angolo
La definizione progettuale necessita di una catarsi che cambi il destino della linea. A farlo ci pensa l’angolo che imprime spinta, propulsione, apertura. La linea mantiene l’ossatura del quadro, gli angoli sviluppano il sistema muscolare della forma, l’elastica disposizione al respiro geometrico di ogni modulo. Forza centrifuga e gravitazionale spingono gli elementi in dentro o in fuori, a destra o a sinistra, in alto o in basso: un ritmo che nasce dal rapporto automatico tra linee ed angoli, tra la sicurezza della forma (linea) e il passaggio evolutivo, inaspettato, fondamentale (angolo).

Campanella dice…
“L’Oggettivismo Astratto, come lo intendo io, indaga proprio questa ‘complicazione’ che il postmoderno ci ha assegnato in dote senza che nessuno glielo abbia chiesto: la materialità immediata di ciò che è verificabile dai sensi viene integrata, ma mai azzerata, dall’immaterialità mediata e mediatica della sua controversa comprensione. Non esistono steccati, e non esistono barriere o traguardi da conseguire: come un quadro nasce da un altro quadro, e un’immagine da un’altra immagine, altrettanto uno stesso quadro, e una stessa immagine, possono dilatarsi, o restringersi, a seconda della distanza cui ci poniamo rispetto ai suoi parametri di riferimento…”

Per chiudere…
Sintesi e flusso, angolo e linea: quattro posizioni per una singola forma instabile. Mi piace quando Campanella parla di vicinanza e distanza, quando riafferma le ragioni individuali dello sguardo, la libertà metodica dell’interpretazione. Provavo a guardare i singoli quadri da distanze e angoli diseguali, con luci e atmosfere variabili. Risultato? L’opera cambiava di continuo in una sinfonia dinamica dai rimandi disomogenei. Direi che l’artista, con le sue regole e la sua necessaria parzialità, ha capito la dissonanza del flusso.

 
     
     
     
     
     
     
 
"FABRIZIO CAMPANELLA" di Laura Mattioli
(da: “Il Messaggero”, Roma, 9 giugno 2008)

Una quindicina di opere su tela per mostrarci la sua idea della realtà. O meglio, quello che della realtà possiamo percepire se avviciniamo lo sguardo a tal punto da arrivare allo scheletro primordiale delle cose. Sotto la lente d’ingrandimento del giovane artista romano Fabrizio Campanella, frammenti di natura come un albero, o porzioni di figure come il ritratto di un clown, si trasformano in angoli, curve e spigoli, in forme geometriche dallo stile piatto che richiamano alla memoria quella realtà che Mondrian riduceva all’essenza di una linea. La mostra "La dissonanza del flusso", in corso presso lo Studio Soligo, presenta gli ultimi sviluppi della ricerca di Campanella, artista conosciuto anche per la sua adesione all’Iperspazialismo.
Il movimento, che prosegue il discorso iniziato da Lucio Fontana, è la presa di coscienza che il progresso scientifico e telematico ha ampliato la visione dello spazio. Non è quindi un caso se la sintesi del reale operata da Campanella, con una formulazione piatta dai colori squillanti, ricordi lo schermo di un monitor o mostri – come scrive Gianluca Marziani nel catalogo – profonde vicinanze con la cultura digitale e con la musica elettronica.
In opere come Lo specchio infranto, o Corto-circuito di un ritratto, ricordi naturalistici affiorano per riannegare subito dopo in una parziale astrazione. Un oggettivismo astratto, il suo, che rende visibile la complicazione che il post-moderno ha portato con sé: da un lato ciò che percepiamo con i sensi, dall’altro una realtà sempre più mediata e mediatica che si dà soltanto come sovrapposizione di interpretazioni. Il risultato a cui giunge l’artista è sorprendente e provocatorio: la morte dell’astrazione. Perché non si può più astrarre da una realtà che non è più una né univoca.
 
     
     
     
     
     
     
 

"LA DISSONANZA DEL FLUSSO DI FABRIZIO CAMPANELLA" di Alberto Esposito
(da: “Italia Sera”, Roma, 14 maggio 2008)

Con il titolo “La dissonanza del flusso” la galleria romana Studio Soligo espone una quindicina di opere di Fabrizio Campanella con le quali l’artista “racconta” la sua idea dell’immagine. Con preciso ordine compositivo di forme geometriche che si intersecano e si sovrappongono, disposte nello spazio secondo un principio di armonici contrasti cromatici di diversa intensità luminosa, Fabrizio Campanella elabora una nuova forma di “realtà” che trova in se stessa la ragione d’essere.
E’ un’orchestrazione di colori e una ritmica spaziale alle quali Campanella affida l’espressione dei suoi sentimenti, del suo stato d’animo rappresentato attraverso un geometrismo che va oltre l’immagine per giungere ad un’astrazione della sua visione della realtà sempre più razionale, utilizzando “elementi” semplici, quasi schematici. Tutta la sua opera sostiene il rigore, la semplicità e la sintesi espressiva necessari ad esplicare il concetto che è alla base del “motivo” della raffigurazione. Quella di Fabrizio Campanella, scrive nella presentazione in catalogo il curatore della mostra Gianluca Marziani, “è una ricerca pittorica rigorosa articolata in forme geometriche dalle forti relazioni cromatiche. L’architettura dei quadri evidenzia un meccanismo di sintesi elaborativa che si lega ad una stesura totalmente piatta. Le zone geometriche dialogano su uno stesso livello, creando continuità tra colori e geometrie a contrasto. La sintesi crea così intonate tensioni armoniche, tesse le corde dissonanti sulle matrici di un medesimo spartito. Il risultato suona con implicite musicalità elettroniche, simile a quanto compie la composizione digitale di alcuni musicisti sintetici”.

 
     
     
     
     
     
     
 

"LA CARTA COME ESSENZA DI UN’OPERA" di Francesca Gianna
(da: Carte e Cartacce, catalogo, “Massi Studio d’Arte”, Roma, 2007)

[…] Con questa mostra dal significativo titolo “Carte e Cartacce” si vuole sottolineare la differenza che intercorre tra il materiale calpestato, le cartacce appunto che si trovano a terra s-cartate dalla società, e quello innalzato al rango di opera d’arte. I dodici artisti che qui vengono presentati, Richard Antohi, Renato Barisani, Franco Beraldo, Fabrizio Campanella, Carmine Di Ruggiero, Ennio Finzi, Franco Giuli, Salvatore Giunta, Riccardo Guarneri, Achille Pace, Eduardo Palumbo ed Enrico Girello, hanno quindi proposto opere realizzate su carta, create ex novo o selezionate da lavori precedenti, in modo da fornire ognuno una diversa rappresentazione del proprio linguaggio artistico. Tutti appartenenti ed operanti nel secondo novecento, rivelano una propensione particolare a lavorare con una tale materia, per alcuni addirittura trasformata in inedito genere pittorico.
Differenti stili che hanno come comune denominatore il pensiero astratto, più geometrico per alcuni, minimalista per altri, gestuale e materico per altri ancora. […] Se per alcuni il materiale cartaceo è parte integrante dell’opera, per altri diviene invece spunto per iniziare una riflessione sulle tendenze storico-artistiche passate e future. A quest’ultima categoria appartiene Fabrizio Campanella, che ha proposto un’acuta quanto essenziale spiegazione sull’uso che egli fa del linguaggio astratto: L’astrazione non è un rifiuto della realtà, ma un diverso modo di riqualificarla concettualmente. Cos’è un “impossibile paesaggio” se non ciò che resta, di quel paesaggio, quando ci dimentichiamo delle case, degli alberi, del sole all’orizzonte? Forme e colori di un’ipotesi di mondo che racchiude in sé tutti i mondi possibili e che talvolta ne cela il racconto nella grammatica elementare d’un pentagramma che lo cancella. Sono le “Prove tecniche di trasmissione”, ancora quello che resta di un’ulteriore ipotesi del mondo, ra le coordinate da riempire d’uno schermo illusorio. La riflessione di Campanella rimanda alle prime tesi sull’astrattismo portate avanti agli inizi del ‘900 dai membri del Blaue Reiter di Monaco, storici precursori di un lessico che oggi è divenuto parte integrante e dinamica della memoria collettiva. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"LII PREMIO TERMOLI" Sezione artisti italiani di Leo Strozzieri
(da: LII Premio Termoli – Aisthesis: Memoria e Presente, catalogo, Edizioni Artechiara, Pescara, 2007)

Accanto a indiscusse figure di primo piano nell’attuale panorama artistico nazionale (Barisani, Bentivoglio, Boille, Koulakov, quest’ultimo ormai naturalizzato italiano, ed altri) sono stati invitati a questa rassegna importanti pittori della generazione di mezzo ed anche giovani di sicuro avvenire, memori che da sempre il Premio Termoli costituisce una sorta di viatico verso brillanti carriere. Ma andiamo con ordine.
[…] Ultimi due artisti presenti in questa sezione Campanella e Di Vincenzo. Fabrizio Campanella, che già gode di notorietà nazionale, è interessato a esiti percettivi delle fasce cromatiche, alla vibrazione dei campi di fondo, nonché all’articolazione armonica dei vari passaggi caldi o freddi delle tessere timbriche, il tutto corroborato soprattutto nelle intersecazioni delle linee di spiritualizzante luminescenza, frutto, a mio avviso, della consuetudine con i pittori toscani del Quattrocento.

 
     
     
     
     
     
     
 

"L'OPERA DI FABRIZIO CAMPANELLA" di Maurizio Vitiello
(da: “Albatros Magazine”, Anno VII, n. 65, marzo 2007)

L’attualissima pittura di Fabrizio Campanella si presenta viva, qualificata, interessante, compatta e duttile. Il senso della realtà, ritrovata ed inseguita, domina gli scenari che la mano esperta dell’artista elabora con acuta e valente sapienza. Paesaggi d’invenzione cosmica di forti e ruotanti inclinazioni, visioni d’insieme, scenografie pulite da assillanti metropoli, macchie di scenari altri, ed ulteriori, guadagnano la vita sulla tela e su altri supporti.
L’impostazione di Campanella conquista tessiture di panorami reali, ma anche “follemente” immaginati, e proprio da queste tessiture emergono visioni sospese tra sogni, emozioni e vibrazioni. L’artista continua a dettagliare frequenze, fantastiche e vitali, sotto impulsi ed immaginazioni fertilissime. I suoi lavori risucchiano cadenze visive di un iter mentale, che ripercorre “note” e fa emergere la sua voglia di corroborare e fortificare la tela con campiture estremizzate e veloci.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Movimento Iperspazialista, itinerario dell’Arte Oltre" di Leo Strozzieri
(da: Movimento Iperspazialista, catalogo, Edizioni Artechiara, Pescara, 2006)

Dopo la mostra Iperspazialismo e sue radici storiche tenutasi al Museo Corradino d’Ascanio di Popoli nell’estate del 2005, questo nuovo appuntamento espositivo del Movimento, fondato nel 1996 a Chieti da Ettore Le Donne, Antonio Paciocco, Cesare Iezzi e Giuseppe Masciarelli (attualmente i componenti del gruppo sono ventuno), costituisce un ulteriore capitolo di quello che potremmo chiamare itinerario dell’arte oltre, ovvero un tentativo assolutamente originale di proporre una ricerca che superi l’immediatezza del fenomeno, pur rimanendo entro il perimetro del reale dalla scarsa affidabilità percettiva. Perché lo spazio, ancor più l’iperspazio, ha una propria naturale identità pur nella dissolvenza prospettica che solo la scienza può superare, ed aggiungiamo anche l’arte.
[…] Ma veniamo ora alle nuove, autorevoli presenze, cioè agli artisti che recentemente hanno aderito al Movimento, rendendo più fertile il dibattito su questo nucleo di pensiero al tempo stesso moderno ma che, potremmo dire, accompagna la storia dell’umanità fin dagli esordi.
[…] Si fanno coinvolgere in questo discorso spaziale affidato all’astrattismo anche Massimo Pompeo e Fabrizio Campanella: il primo, attraverso le ormai note Tabulae Maritimarum evocanti la mirabile esperienza dell’Aeropittura, si affianca alla coralità di quanti nella storia sono stati gli aedi del progresso, fautori del dinamismo e della velocità, uniche prerogative in grado di sferrare un attacco decisivo alle barriere dello spazio; il secondo, manipolando talora anche in modo ludico la predisposizione recettiva delle superfici dell’opera, compone equilibrate ed armoniose pagine dialogiche con a fondamento il colore cinetico. Pertanto, mentre i paesaggi visti dall’alto e i brani geografici danno ai quadri di Pompeo un respiro elitario, perché non comune nella sua altitudine,
per non parlare poi dell’essenzialità delle visioni dovuta alla prospettiva non più formale e statica, le policromatiche composizioni di Campanella, riferibili certamente alle Compenetrazioni iridescenti di Balla, alla simpatia dinamica aggiungono il dogma che tale compenetrazione dei corpi sia possibile ove si sia prima verificata una loro smaterializzazione, come per un potere magico dello spazio […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Autori valori: itinerari d’arte" di Leo Strozzieri
(da: AUTORI VALORI, catalogo, Benevento, 2005)

[…] Accanto a opere di maestri ormai storicizzati dell’arte italiana della seconda metà del ‘900 (Franco Angeli, Primo Conti, Antonio Corpora, Luigi Faccioli, Tano Festa, Luigi Montanarini, Mario Schifano e Giulio Turcato), troviamo opere di artisti tuttora impegnati in una ricerca per lo più sul versante dell’astrazione.
[…] Anche per Fabrizio Campanella tale impianto compositivo è fondamentale e pertanto costruito con assoluta determinazione. I segni, quasi sempre spezzati, paiono essere sottoposti a una sensibilizzazione della forma e con rapida volontà obbediscono a un sottinteso demiurgo capace di ordinarli lasciando loro una fortissima carica energetica. Pertanto rigore e dinamismo mi pare siano i valori sublimanti le composizioni del giovane artista romano. Crepe e fenditure che si generano nelle sue griglie grafiche servono sia a scandire i piani fornendo composite dimensioni prospettiche e vibrazioni luministiche, sia a cimentare per l’osservatore il retroterra cinetico. Il suo percorso creativo non credo sia caratterizzato da stretti riferimenti alle avanguardie, ove si eccettui un’eco futurista e sul piano puramente tecnico certi procedimenti dell’arte cinetica.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Autori valori: itinerari d’arte" di Leo Strozzieri
(da: AUTORI VALORI, catalogo, Benevento, 2005)

[…] Accanto a opere di maestri ormai storicizzati dell’arte italiana della seconda metà del ‘900 (Franco Angeli, Primo Conti, Antonio Corpora, Luigi Faccioli, Tano Festa, Luigi Montanarini, Mario Schifano e Giulio Turcato), troviamo opere di artisti tuttora impegnati in una ricerca per lo più sul versante dell’astrazione.
[…] Anche per Fabrizio Campanella tale impianto compositivo è fondamentale e pertanto costruito con assoluta determinazione. I segni, quasi sempre spezzati, paiono essere sottoposti a una sensibilizzazione della forma e con rapida volontà obbediscono a un sottinteso demiurgo capace di ordinarli lasciando loro una fortissima carica energetica. Pertanto rigore e dinamismo mi pare siano i valori sublimanti le composizioni del giovane artista romano. Crepe e fenditure che si generano nelle sue griglie grafiche servono sia a scandire i piani fornendo composite dimensioni prospettiche e vibrazioni luministiche, sia a cimentare per l’osservatore il retroterra cinetico. Il suo percorso creativo non credo sia caratterizzato da stretti riferimenti alle avanguardie, ove si eccettui un’eco futurista e sul piano puramente tecnico certi procedimenti dell’arte cinetica.

 
     
     
     
     
     
     
     
 

"FABRIZIO CAMPANELLA" di Enzo Santese
(da: I SALMI – Mostra Internazionale di Arte Sacra, catalogo, Edizioni Andrea Moro, Sesto al Reghena, Pordenone, 2005)


La forza della pittura di Fabrizio Campanella imprime slancio dinamico anche alla pittura apparentemente incardinata in una strutturazione geometrica, creando un seducente equilibrio fra dato razionale e piena libertà di progettare lo spazio dell’evento. L’artista sviluppa, in un’opera d’intonazione astratta, un pensiero sul salmo 27: da una parte stilizza e moltiplica l’idea del “tetto” come simbolo di un’entità che sovrasta e protegge, l’Assoluto. Dall’altra, il tentativo di dare forma alla fisionomia del divino, si evidenzia in un ambito dove segni, linee, colori parlano di una realtà frattale che pare comporsi in rilievo riconoscibile per scomporsi immediatamente dopo. La pittura di Campanella lascia qui sullo sfondo la razionalità geometrica per oggettivarsi in un magma, dove sono evidenti minime porzioni di realtà, che danno l’idea di aggregarsi in un tutto.

 
     
     
     
     
     
     
 

"ANATOMIA DELLA FORMA" di Sandro Stocco
(da: Fabrizio Campanella: Quadriennale e dintorni, catalogo, Sgarro Galleria d’Arte, Lonigo, Vicenza, 2005)


Ponendo nel secolo scorso l’interrogativo di individuare le linee guida che indirizzavano lo sviluppo diacronico del pensiero creativo e tracciavano il solco maestro della produzione artistica nei successivi periodi storici, sarebbe stato possibile fornire risposte attendibili e basate su riscontri oggettivi. Infatti, ogni decennio presentava una precisa caratterizzazione segnata dal succedersi, dapprima, delle avanguardie storiche, e in seguito da un rapido e sempre più incalzante susseguirsi di movimenti e modelli. Ogni corrente artistica appariva in equilibrio instabile, poiché ben presto diveniva obsolescente e veniva sostituita da nuovi linguaggi, da altre linee di pensiero e di espressione. Malgrado questa incessante evoluzione, era possibile individuare delle direttrici di sviluppo del percorso storico, in quanto ogni ricerca era codificata da un manifesto programmatico, o da una poetica chiaramente delineata, e da un raggruppamento sufficientemente omogeneo di artisti che vi aderivano e che esponevano insieme. Sia pur tenendo conto delle peculiarità nazionali, era possibile seguire il filo rosso che indicava la traccia continua delle esperienze che si succedevano, e si potevano discernere le tematiche fondanti da quelle marginali. Al riguardo, risulta emblematico il fatto che molte Biennali di Venezia venivano caratterizzate da correnti artistiche ben definite e addirittura, nel gergo settoriale, venivano citate con la denominazione del movimento dominante. Anziché con l’anno, esse venivano ricordate come quelle dell’Informale, della Pop Art, dell’Arte Povera, dell’Environmental Art… In questo modo il percorso storico dell’evoluzione artistica procedeva
entro un solco chiaramente delimitato.
Dallo scorcio finale del secolo e, soprattutto, in questo inizio del terzo millennio, tali categorie di pensiero si sono dissolte, il filo rosso non ci indica più un percorso univoco, e Teseo non può più uscire dal labirinto poiché il filo si è aggrovigliato in modo tale che risulta impossibile dipanarlo. Il nomadismo intellettuale, teorizzato da Achille Bonito Oliva, ha frantumato la direttrice, e ora ci troviamo dinanzi a tronconi disarticolati che si muovono contemporaneamente in tutte le direzioni possibili e molto spesso finiscono per ripiegare intrecciati su se stessi. In questa nostra società post-moderna assistiamo a un’orgia di manierismo, di ripresa e rilettura di esperienze passate, di dominio dell’indeterminato e, addirittura all’interno della stessa opera, di compresenza di elementi disparati. In questo contesto contraddittorio di indecifrabile lettura non è più misurabile il tempo evolutivo dell’arte, ed esso viene sostituito dal tempo dell’individuo o, sovente, dall’hic et nunc.
Un pittore che si sta avviando alla piena maturità, come Fabrizio Campanella, evidentemente risulta sensibile a questa temperie culturale e, pertanto, vive di momenti diversificati e apparentemente contraddittori che però gli permettono di non appiattirsi in una stanca ripetitività, in quanto la sua indagine si sviluppa con libertà in senso ciclico con continue fughe e ritorni a livelli sempre più pregnanti. In quest’ottica è da leggersi l’alternarsi di lavori in cui predomina una più meditata ed equilibrata progettazione delle forme, ed altri in cui l’urgenza espressiva manifesta tutta la sua vitalità con un dinamismo irruente e tensioni spaziali dagli imprevedibili esiti.
La pittura di Campanella è pittura colta, che sempre ricerca un’anatomia della forma che diviene significato e significante e che, pur rifuggendo da notazioni descrittive, risulta carica di potenzialità evocativa. L’indagine si svolge sulla forma e all’interno della stessa scompaginando un primigenio ordine logico con sfrangiature e intersezioni che, pur nel loro dinamico divenire, conservano una solida plasticità nella successione dei piani che indagano nei più intimi anfratti dello spazio. Questo modo di procedere gli consente di stabilire una concreta adesione del pensiero generatore del suo lavoro alla sensazione percepita e razionalmente rielaborata. Il colore è comunque l’elemento essenziale che vitalizza le composizioni, individua le linee-forza, definisce le superfici e le fa vibrare scandendo i ritmi di un rapporto partecipato ed emozionale con il quadro: esso rende vivo lo spazio, travalicando l’algido rigore costruttivo con una sorta di flusso vitale.
Nel suo percorso pittorico Campanella si avvale di molteplici rimandi, quali quelli al cubo-futurismo o a certe esperienze cromatiche del Dorazio intorno agli anni Sessanta, ma questo è da intendersi nel senso della capacità dell’artista di nutrirsi di molteplici e diversificati apporti culturali per trasformarli in un personale e autonomo linguaggio in grado di generare una costellazione di possibilità espressive.
Campanella percorre in tal modo i sentieri dell’astrazione su crinali che conducono la sua pittura verso esiti non scontati o preordinati. Citando Musil, si potrebbe affermare: non so dove sto andando, ma so di andare lontano.

 
     
     
     
     
     
     
 

"A me piace…" di Gabriele Marazzina
(da: XIV Quadriennale. Anteprima, Napoli 2003, in: “Il Viatico”, gennaio-febbraio 2004)


[…] Bramante Davide, siciliano, “My own Rave, New York/Athina” (China Town – Omonia Square). Un’opera su cui Bramante lavora dal 1998 e che utilizza immagini di luoghi sovrapposte sullo stesso fotogramma. Un lavoro sulla memoria intrinseca dei luoghi: quella che è oggi la China Town di New York, era anni fa Little Italy, e Omonia Square ad Atene è il luogo di ritrovo prescelto dagli italiani di passaggio nella capitale greca. New York è il luogo di riferimento culturale contemporaneo per eccellenza così come Atene lo era nell’antichità. Bulla Agata, catanese, “…fino alla meta”. Sembra un quadro pointilliste: in un monocromo blu di cielo e mare galleggiano due barchette di carta. Campanella Fabrizio, romano, “Spazio 2003”. Un trittico dove la ricerca di equilibri formali deriva dalla tradizione astrattista […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Impressioni. Napoli, Torino, le opere" di Laura Turco Liveri
(da: Diario di una visita, in: “Terzoocchio”, n.110, marzo 2004)


[…] Oppure, dal punto di vista formale, è ineccepibile l’installazione del gruppo di architetti Stalker (Francesco Careri, Aldo Innocenzi, Romolo Ottaviani, Giovanna Ripepi, Lorenzo e Valerio Romito, nati tra il 1964 e il 1971), purtroppo non rappresentata in catalogo (al suo posto c’è un fotomontaggio). Inconveniente fastidioso, questo, che si è ripetuto per altri autori. Sempre dal punto di vista dell’attenzione alla forma estetica dell’opera, nelle forme tuttavia tradizionali della pittura, la proposta in acrilico su tela di Fabrizio Campanella (Roma, 1965), con un trittico derivante da ricerche personali su linea e tracciato cromatico, dove il tessuto pittorico, in altri casi concettualmente sanguinante di drammaticità e sofferenza pur nell’aulicità architettonica della composizione, si apre nell’assoluta calibrazione compositiva, visivamente e sinesteticamente ritmata e orchestrata come in un’esecuzione musicale. Il movimento delle masse compositive, quindi, rimanda a un’idea estetica che invece di costituire una fuga dalla realtà propone un approccio visivo modulato sulla positività di canoni estetici, non esclusivamente pittorici, che si trasforma in energia costruttiva nei confronti della realtà stessa. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Vedere o perire" di Gabriele Simongini
(da: Un soffio di parole, musica e immagini - MetaMAG 2004, catalogo, Galleria “Il Tempo Ritrovato”, Roma, 2004)


[…] Ebbene, i quattro artisti coinvolti nella mostra “Un soffio di parole, musica e immagini” (Ariela Bohm, Fabrizio Campanella, Andrea Lelario, Mario Tommasello) sono ben consapevoli della necessità di riportare il discorso creativo alla specificità “purovisibilista” delle arti visive nelle loro complessità comunicative. Ciò che li unisce, nella compresenza di grandi differenze, è un’idea archetipica di scrittura non narrativa o letteraria, quanto piuttosto concepita come traccia segnica di memorie collettive e individuali, di scintillazioni dell’anima che si riverberano dal microcosmo al macrocosmo. In un percorso metamorfico che da un artista passa all’altro, il segno dello spirito creativo viene inciso, modellato, dipinto, disegnato e digitalizzato, si materializza e smaterializza, ma resta quel che è, scia di “onde mnemiche” (per dirla con Aby Warburg) che si sovrappongono senza posa da tempi immemorabili fino a sfiorare il futuro.
[…] Fabrizio Campanella presenta in quest’occasione alcune opere piuttosto lontane dal suo percorso precedente e rigorosamente astratto. Le sue sono “scritture iconiche” che danno immagine ad un antropomorfismo gestuale, generato da una scrittura automatica che è anche labirinto interiore, oltre che corrucciata riflessione sull’inattualità di qualsiasi divisione troppo rigida fra astrazione e figurazione […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Tra senso e sensorio" di Riccardo Notte
(da: XIV Quadriennale d’Arte di Roma 2003-2005 – Anteprima, catalogo, De Luca Editori d’Arte , Roma, 2003)


[…] Se è noto che il senso della realtà nasce in seno a un mondo significante condiviso, è anche evidente che questo tessuto è oggi formato dai fili di una compatta condizione connettiva, da una “allucinazione connettiva”, che abbatte senza remissione ogni resistenza culturale, ogni identità. Disgregate da forze endogene ed esogene, le collettività si tramutano in connettività.
[…] Ciò è ben visibile nelle esperienze dell’arte, dove la comunicazione e lo scambio accelerato di materiali e di eventi forgia processi estetici interattivi e autoconvalidanti. La connessione, evidente nella ricerca scientifica più che altrove, produce entropia nei saperi specialistici, incrementa la frammentazione, aumenta il valore aggiunto della novità. Ma, contemporaneamente, la connessione genera linguaggi unificanti, espelle automaticamente fenomeni sedimentati, condanna all’anomia chi non è organicamente inserito nel suo specifico koinos kosmos.
Il contesto cosiddetto dell’ “arte internazionale”, investito come altri dalla funzione di connessione, ma da essa intimamente indebolito in forza dell’assenza di ogni riscontro empirico del suo operare, reagisce strutturando statuti valoriali fluttuanti e annettendo province estetiche sempre nuove, ma nei suoi territori trova spazio anche un agire tradizionale, ad esempio nella infinita varietà dei linguaggi derivanti dalla tradizione astrattista, compendiati in questa esposizione dalla classica, composta ricerca di equilibri formali in Campanella […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Ecco i migliori" di Beatrice Buscaroli
(da: Un’Anteprima di pittori e di pittura. Con appendice di sana polemica, in: “Il Domenicale”, 13 dicembre 2003)


[…] Il tremolio della videoproiezione in diretta supportata dal sottostante disegno a matita rende la Veduta di Castel Sant’Elmo di Andrea Aquilanti una riuscita contaminazione tra un’instabilità tecnica e una pittoricità di richteriana memoria; è una contaminazione opposta alle sovrapposizioni che Davide Bramante, tra ricordi e relazioni, affida alla sua stampa fotografica su alluminio My own Rave, New York/Athina. Ancora una fotografa è Elisa Laraia, una delle migliori artiste presenti in mostra, con l’evidenza autoironica della sua stessa immagine e Nicola Vinci, con il suo Napoleone bambino e sbadigliante. Non un caso sociale, ma un vero saggio di pittura è l’opera di Marco Mastrangelo, artista down, invitato in quanto artista e non per altro, la cui Isola d’Elba rivela una sensibilissima nostalgia per la pittura, e una natura delicata. Pittura ancora in Giovanbattista Cuocolo, in Alberto Di Fabio, nell’astrazione acrilica di Fabrizio Campanella, nella sinestetica e arcimboldesca natura di Fulvio di Piazza, artista siciliano in ascesa. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Campanella, idea astratta di spazio" di Gabriele Simongini
(da: “Il Tempo”, Roma, 11 gennaio 2002)


Suscitare emozioni in chi guarda l’opera, in maniera diretta, col solo linguaggio dei segni e dei colori nello spazio, senza raccontare o descrivere nulla di letterario o aneddotico, ma dando immagine alla “genesi della forma”. Le ricerche astratte, anche le più diverse tra loro, sono accomunate da questo obiettivo che vuole collegare direttamente la percezione dell’occhio all’emozione dello spirito, in ideale riferimento all’assoluta autonomia ed efficacia comunicativa della musica. E questo connubio d’intenti è perseguito con rigore da uno fra i più promettenti pittori italiani quale è Fabrizio Campanella, protagonista in questi giorni di una mostra personale e di una ben scelta rassegna a tre presenze.
Nella personale, presentata fino al 15 gennaio dall’Associazione Culturale “Il Tempo Ritrovato” (Lungotevere degli Altoviti, 4), è ripercorso un itinerario creativo lungo dieci anni e sintetizzato sotto il titolo di “Una musica costante”. Nelle strutture cromatiche che popolano i quadri di Campanella, è infatti ben evidente una ritmica musicale che procede per meditate varianti. In tal senso il titolo della mostra è ispirato, in termini puramente evocativi, all’omonimo romanzo dello scrittore anglo-indiano Vikram Seth. Ed è, inoltre, ben chiara, una rinnovata attenzione all’eredità futurista rielaborata secondo la diversa frammentazione percettiva e dinamica della nostra epoca. L’idea di una spazialità interattiva con lo spettatore, ma sempre creata con i mezzi esclusivamente pittorici, è al centro della mostra con cui la nuova galleria della L.I.Art (Laboratorio Incontri d’Arte; Via David Lubin 4; fino al 13 febbraio; testo critico di Laura Turco Liveri) metterà a confronto le opere degli artisti di tre generazioni. Si va così da un maestro come Achille Perilli, con le sue “geometrie irrazionali”, a un cantore della trasformazione della quotidianità come Paolo Zughetti fino, appunto, a Fabrizio Campanella, volto a conquistare una progressiva chiarezza e sintesi pittorica che è anche un modello morale.

 
     
     
     
     
     
     
 

"FABRIZIO CAMPANELLA" di Alberto D’Ambruoso
(da: “Terzoocchio”, Anno XXVIII, n. 102, marzo 2002)


Il suono musicale giunge direttamente all’anima e vi trova subito un’eco, perché l’uomo ha la musica in sé, affermava Kandinsky nello Spirituale nell’arte. E una musicalità intesa come orchestrazione dello spazio pittorico si avverte nella pittura dell’artista romano Fabrizio Campanella. Le diciassette opere presenti in mostra ripercorrono dieci anni di attività creativa, dagli esordi dell’artista con i Progetti di variazione alle ultime prove documentate dalle Strutture. Forme, segni, colori si affastellano armoniosamente sulle tele, accompagnati da un ritmo interiore che a volte è pacato, altre si fa incessante. La musica rappresenta davvero un continuum nella ricerca artistica di Campanella, assurgendo al ruolo di musa ispiratrice che gli indica i possibili percorsi nella fase creativa. Nella serie delle Variazioni (1991-1992), la composizione si articola seguendo l’espressività della linea monocromatica e forma una moltitudine di teste umane che ruotano freneticamente sulla superficie della tela. Lo stesso concetto di “variazione” viene poi ripreso nel 1996, ma laddove era la linea, che definiva la costruzione dell’impianto pittorico, qui è il colore che bilancia e definisce la composizione frantumando fino a far quasi scomparire gli ultimi residui di figurazione. Nei Senza titolo (1992-1994) la presenza oggettuale è praticamente scomparsa, cancellata dalle pulsazioni di una pennellata che si fa in alcuni casi drammatica, e ciò che rimane è la memoria dell’immagine celata. Con le Composizioni (1998), Campanella sembra liberarsi definitivamente del dato oggettivo per dedicarsi completamente alla strutturazione dello spazio pittorico servendosi unicamente delle corrispondenze sonore-emotive di colori e segni che riescono a convivere pacificamente. Ma ecco che quando il reale, in quanto fenomeno e quindi apparizione, sembra del tutto sparito dal suo repertorio iconografico, inaspettatamente riemerge nella fase del “Realismo lirico” (sempre nel 1998). Qui la linea si erge a protagonista della definizione spaziale, essenziale nella costruzione dell’immagine, e il colore assume una valenza chiaroscurale di supporto (Maternità e Passo di danza ). Le Strutture (1998-2000) rappresentano le ultime fasi della ricerca artistica di Campanella. Nasce in queste opere il bisogno di distendere la superficie e lo spazio pittorico, dando vita ad una struttura mentale dove i colori e le linee si intersecano in una scansione che si fa sempre più astratta. Le opere di Fabrizio Campanella ci colpiscono per questa sorta di ambiguità, forme reali che si fanno astratte, presenze-assenze. Quasi un invito ad entrare nella tela ed ascoltare le musicalità più segrete degli stati più intimi dell’anima.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Sistemi cognitivi dell’arte: vernissage per Fabrizio Campanella" di Mariangela Adinolfi
(da: “La Città”, Salerno, 26 aprile 2001)


Prosegue con successo, presso l’Osservatorio per le Arti Visive, la singolare rassegna d’arte contemporanea dal titolo “Sistemi cognitivi dell’arte – Media e tecnologie dell’arte contemporanea”. Anello di congiunzione con il passato, questa rassegna, portata avanti nel tempo con grande passione da Lucio Afeltra e da Marina Imparato, rappresenta un esperimento unico nell’ambizioso tentativo di creare una continuità tra arte classica e contemporanea. Il ciclo espositivo della manifestazione, inaugurata lo scorso 15 marzo, ospiterà questa sera la mostra personale dell’artista Fabrizio Campanella.
La musicalità delle strutture compositive di Campanella è stata più volte al centro dell’interesse critico di diversi studiosi che si sono accostati all’opera del giovane artista romano. Una musicalità suggerita dal ritmo visivo delle linee, delle zone di colore, e dal bilanciamento armonico della composizione; un ritmo esaltato, in alcune prove, dalla gestualità prorompente del segno.
Ed è proprio la coscienza della forma, come consapevolezza del linguaggio pittorico, che ha costituito nel tempo il punto cardine della ricerca artistica di Fabrizio Campanella, portandolo a posizioni realmente innovative rispetto al panorama artistico dei nostri giorni. Ecco quindi lo studio analitico della struttura del quadro che caratterizza nel tempo l’impostazione formale ed estetica del lavoro dell’artista, mostrando, per sua stessa natura, forti analogie con la costruzione musicale, in sé astratta e strutturale, libera nella coerente individualità della composizione.
Si ricorda che l’artista, oltre alle varie personali e collettive che lo hanno visto protagonista da Napoli a Los Angeles, ha aderito nel 1997 all’Art Club Internazionale, il prestigioso sodalizio artistico rifondato nel 1995 da Piero Dorazio sulla scia dell’omonimo movimento storico cui presero parte, oltre allo stesso Dorazio e ad Achille Perilli, anche Enrico Prampolini e Gino Severini.
La rassegna prevede, oltre all’esposizione, la realizzazione in loco di un’opera d’arte degli artisti presentati, pezzi unici che rimarranno sul territorio, e che andranno a illustrare il catalogo arricchito dai contributi scientifici di Giuseppe Siano, Francesco D’Episcopo e Laura Turco Liveri. Altra peculiarità sarà il collegamento audio-video, in diretta da Roma, con studiosi dell’arte contemporanea ed esperti nella conservazione e nel recupero dei Beni Culturali. La rassegna “Sistemi cognitivi dell’arte” ha infatti, come finalità, quella di documentare il divenire della produzione artistica: da una parte, dunque, gli strumenti del “fare arte”, dall’altra invece le tecnologie cui l’artista fa riferimento nella produzione delle proprie opere. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"L’astrattismo italiano" di Riccardo Notte
(da: “Ideazione”, Anno VIII, n.4, luglio-agosto 2001)


L’astrattismo italiano – cui dedichiamo le immagini di questo numero – nasce in seno al Futurismo, da Balla a Magnelli. Il primo, fra il 1912 e il ‘14, creò le sue Compenetrazioni iridescenti. Il secondo, nella Firenze degli anni ’10 e poi a Parigi, fu astrattista per scelta e per temperamento. Ma la Firenze futurista fu anche patria di Ginna, che pittore non era, ma produsse opere astratte; come astrattisti sono molti quadri di Julius Evola. Bisogna attendere gli anni ’30 per ritrovare nei futuristi Munari e Korompay i germi di nuove ricerche astratte. Il vero propulsore resta però Carlo Belli, autore di Kn (1935), che Kandinskij definì il “Vangelo dell’arte astratta”. Il libro influenzò la Galleria Il Milione di Milano (Veronesi, Melotti, Fontana, Soldati, Bogliani, Licini, Ghiringhelli, Reggiani) e gli astrattisti di Como (Radice, Rho, Badioli, Carla Prina, Galli). La guerra segna una cesura. Nel 1947 la nuova compagine del gruppo “Forma 1” (Dorazio, Perilli, Accardi, Turcato, Consagra, Sanfilippo, Maugeri e altri) prende posizione contro il Realismo Socialista. Per la seconda metà del secolo scorso, come non citare Burri, Mastroianni, Caporossi, Vedova? Nel dopoguerra però, accanto agli astrattisti veri e propri, si affiancano gli informali e i nucleari; per non dire del Movimento Arte Concreta. E’ necessario ricordare almeno i nomi di Zigaina, Crippa, Dorfles, Scanavino, Nativi, Berti, Brunetti, Strazza, Tancredi, Novelli, Eduardo Palumbo, Michelangelo Conte, Barisani, Moretti, Niero, Alviani. E sono soltanto alcuni. Tra i più recenti, vanno ricordati Asdrubali, Fabrizio Campanella, Gianni Dessì, Marchetti Lamera, Iacchetti, Tirelli, Chiara Dynys, Arcangelo e altri.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Mario de Candia
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Edizioni Soligo, Roma, 2000)


E’ in ragione della somiglianza con il soggetto che rimpiazza, della sua costituzione spaziale e dell’organizzazione delle forme con cui si propone che l’opera d’arte assume il ruolo di “luogo”, privilegiato, in cui si congiungono costantemente i difficili rapporti fra “presenza” e “assenza”, fra “realtà” e “virtualità”, si potrebbe aggiungere.
E’ a partire da tali ricorrenti rapporti, propri ad ogni tipo di rappresentazione, che possiamo, per molti versi, cominciare ad accettare, e scoprire anche, che l’opera d’arte, con la sua percezione, non è mai una semplice decalcomania, né di un reale figurabile né di un reale figurato, ma una rielaborazione complessa che transita per i vagli ed i filtri della storia completa del suo artefice. Se di realtà figurabile si può parlare, come nel caso di questi lavori, sicuramente questa trova una sua genesi e un suo piano di giacitura, oltre lo schermo effettivo dell’apparenza dell’opera, nelle ragioni e nelle tensioni che spingono il suo autore ad esperire, testimone del tempo in assoluto, così come del suo in particolare, una certa dualità, che per comodità potremmo definire “narcisistica”,
propria ad ogni essere umano: sondare e cercare di districare, su strade non facili e sicuramente non rettilinee, l’aggrovigliato nodo delle interazioni e non necessarie coincidenze d’immagine fra ciò che si mostra di sé a se stessi e ciò che di se stessi si mostra agli altri. Processo che richiama, per forza di cose, il gioco di pensieri, proiezioni e riflessi di comprensione e riflessione fra immagine interna e suo corrispettivo fisico.
Fra realtà ed apparenza, fra ciò che è e ciò che si pensa sia, e gli intendimenti e malintendimenti che ciò comporta.
Tutto ciò vale anche per l’arte. L’immagine percepita dell’opera, difatti, anche se non necessariamente corrisponde all’immagine interna elaborata dal suo autore declina, pur tuttavia, una complessità di nodi strutturali, di categorie e di valori, instabili e permanenti, che consentono di individuare l’identità del suo artefice. Al fondo, la questione, per quanto riguarda l’arte, e non solo, si sposta a collocarsi sul piano della riconoscibilità dell’immagine visiva di sé, chiamando in causa la confusione fra le due, tutt’altro che antitetiche, entità del soggetto esecutore e del soggetto osservatore. Non hanno importanza i modi e le forme, altrettanto meno ne hanno le stesure di generalità
organizzativo-sintattiche o linguistiche che siano. Nella sua sostanza, un’opera d’arte altro non è che un sistema attivo di conversione di prospettiva e passaggio di considerazione in termini di “lontananza” e di “prossimità”, analoghi a quelli di “assenza” e “presenza”, intrinsecamente contenuti nell’opera ed attraverso i quali può essere letta tutta una parte della storia dell’arte.
Dall’osservazione dell’opera all’osservazione di sé, dalla percezione dello spazio finito da questa messo in atto alla finitezza della nostra posizione e collocazione nel mondo, da questo incontro “con-fuso” – fra un dispositivo, nel suo duplice aspetto tecnico ed umano, ed una sostanza iconica ben specificata – l’opera d’arte non solo assume la statura e il ruolo simbolico di una messa in scena “sociale”, ma anche diviene strumento utensile di coscienza, perché anche mezzo di comunicazione interpersonale.
Utensile potente, che rinforza sì il potere di chi possiede e manipola le immagini del mondo, ma anche pericoloso, ché, come tutti i metodi che mettono in discussione e in dubbio l’unità ideale e immaginaria del mondo – e per converso dell’uomo – espongono quest’ultimo ai pericoli della regressione, depressione, decompensazione.
Strumenti relativi, quelli dell’arte, che valgono tanto quanto le qualità di chi se ne serve. L’arte di certo non rende gli uomini migliori, ma essa pur tuttavia rinvia all’umanità, moltiplicata e ingigantita, l’immagine delle sue ambizioni e delle sue debolezze, del suo perfezionamento potenziale, dei suoi limiti e, all’estremo, della sua dis-umanità.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Serio giocoso: le opere su carta di Fabrizio Campanella" di Laura Turco Liveri
(da: “Tempo Presente”, n. 229-230-231, Gennaio-Febbraio-Marzo 2000)


L’esposizione proposta dallo Studio Soligo di Roma, nello scorso febbraio, ha offerto ai visitatori un’inedita selezione di oli e opere su carta che coprono un arco di ricerca, tra il 1997 e il 1999, mai precedentemente indagato o proposto rispetto all’ambito della più nota parabola “astratto- geometrica” dell’autore. L’ampia sezione grafica, ben bilanciata rispetto alla massa cromatica dei vortici e delle scansioni dinamico-espressive dei dipinti ad olio, apre uno squarcio inedito sulla felicità creativa dell’artista, che gioca inventando mille situazioni rinchiuse nell’identità definita dei pirandelliani Personaggi in cerca d’autore. Attori che hanno già in sé la struttura potenziale, sardonica e provocatoria, di un’affermazione in attesa di risposta e che, come anche le successive Maschere, tracciano il profilo di un gioco a più voci con l’osservatore. Veri e propri hypocritès di una moderna rappresentazione, queste figure promettono il simulacro di una complessità di suggestioni a cui lo spettatore attinge liberamente grazie alla coesistenza di vari livelli di lettura che generano essi stessi i loro protagonisti.
Nella carte, infatti, la sintesi espressiva è scarnificata nell’assolutizzazione del tacciato semantico, che scrive anziché descrivere un ritratto, un paesaggio o un volto desiderato, evocando figure che si materializzano come dietro un vetro. Disegni come pensieri, dove i tratti diventano emozioni, impressioni icastiche di situazioni mutevoli, come in natura il repentino cambiamento del tempo. Ancora una volta un gioco, che sul supporto fibroso e rigido della carta si drammatizza in tagli di segni che feriscono, rigano la vergatura come lacrime in viso, in un’esplosione sempre articolata, tuttavia, su un invisibile centro, vero cuore pulsante della composizione. Un segno graffiato, scapigliato, sconvolto dall’uso del coltello e della spatola, giocato sulla presenza-assenza delle masse, affermando e negando nuovamente, al contempo, l’immagine costruita. E se nei dipinti il sipario si apre davanti agli occhi dell’osservatore, nelle carte questo accarezza le spalle di chi guarda, chiudendolo in una camera astratta, téte a téte con l’artista. Come descritto negli studi di linguistica di Tullio De Mauro, potremmo dire che in questa selezionata enclave di opere Campanella, riprendendo il filo della precedente ricerca neoiconica, attualizza la riconoscibilità dei riferimenti all’immagine attraverso l’uso di grafemi e segnaletiche di più immediata lettura. Legandosi quindi alla matrice gestuale degli ascendenti storici, in primis Festa, Angeli e Schifano, l’autore mette a punto un vocabolario visivo che, rinnegando lo spunto meramente illustrativo, riconsidera il gioco dei rapporti segnici e cromatici in un più manifesto percorso di autoidentificazione.
E’ questa la differenza tra le più conosciute prove astratto-geometriche degli ultimi anni – dal tratto uniforme, patinato, quasi olimpico nella sua luminosità (cfr. Fabrizio Campanella. Strutture- Composizioni-Studi, “Archivio”, a.X, n.5, Mantova, maggio 1998, di chi scrive) – e i lavori esposti nella rassegna dedicata alla memoria di Francesco Soligo, che lo inserì nel gruppo degli artisti della sua Galleria, a partire da metà degli anni Novanta. Una mostra che offre un’ottica di riconsiderazione storica sull’autore, gettando nuova luce sull’itinerario di una promettente ricerca, e completando la visuale dell’opera, sorprendentemente matura, di questo giovane artista.

 
     
     
     
     
     
     
 

"I percorsi della memoria di Fabrizio Campanella" di Vittorio Esposito
(da: “Italia Sera”, Roma, 5 marzo 2000)


“L’opera d’arte, con la sua percezione – scrive Mario de Candia nella presentazione in catalogo della mostra di Fabrizio Campanella allestita allo Studio Soligo di Roma – non è mai una semplice decalcomania, né di un reale figurabile né di un reale figurato, ma una rielaborazione complessa che transita per i vagli ed i filtri della storia completa del suo artefice”. E in effetti la più recente produzione di Fabrizio Campanella (gli oli e le opere su carta datano dal 1997 al 1999) altro non è che pagine del diario di un percorso nella realtà quotidiana, vissuta più con ironia che con drammaticità, dove gli “accadimenti” assumono il “volto” dei protagonisti. Perché Fabrizio Campanella esegue, innanzitutto, ritratti. Non nel senso di riproduzione fisionomica, ma come “evento”, fusione di “immagine” con “intuizione lirica”. Campanella non cerca il recupero del naturalismo veristico ma, fedele al credo astratto-concettuale, realizza una sorta di scomposizione cromatica delle suggestioni “archiviate” nella memoria. L’abbozzo, di derivazione figurativa, acquista così il tono e la compostezza dinamica dell’astrattismo. E’ una ricerca imperniata sull’emozione del colore, sulla definizione di una “figurazione” dove l’incrociarsi ed il contrapporsi di linee e di vortici sollecita la visione di un’idea, di una situazione, di un evento, come in “Processione”, “A teatro”, “Omaggio a Montanarini”, “Il folle”.
Questa di Fabrizio Campanella è una pittura armonica e concentrata, rivolta verso l’osservazione più del proprio mondo interiore che di quello che lo circonda, intensificando e privilegiando la propria carica emotiva.
La mostra è stata dedicata alla memoria di Francesco Soligo, che lo inserì nel gruppo dei giovani artisti della sua galleria a partire dalla metà degli anni Novanta.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Guglielmo Gigliotti
(da: “Terzoocchio”, Anno XXVI, n. 96, settembre 2000)


Dopo quattro anni Fabrizio Campanella torna ad esporre, presentato in catalogo da Mario de Candia, con una personale allo Studio Soligo, e lo fa dedicando la mostra al prematuramente scomparso fondatore della galleria, Francesco Soligo, che a partire dalla metà degli anni Novanta lo inserì nel gruppo dei giovani artisti cui dedicare particolare attenzione. L’impianto astratto-geometrico dei dipinti presentati nel 1996 registra, nella produzione recente del trentacinquenne pittore romano, l’immissione di scosse vitalistiche e dinamicizzanti che trasformano in sussulti energetici, e finanche gestuali, l’edificio costruttivo della passata stagione. Decodificato in tutti i suoi segreti lo spazio virtuale del supporto, questo si fa ora ricettacolo di una sua possibile decostruzione, condotta secondo orditi serrati di sciabolate di colore acceso e vivace, a conformazione per lo più lievemente flessa, se non propriamente semicircolare. Ne derivano i motivi a vortice, e talvolta a mandorla, che segnano, sul piano, le polarità deflagratorie di composizioni germinanti per espansioni a motore endogeno. E’ il recupero per un gusto della pennellata, del suo tracciato materico di sostanza pigmentizia che si confronta con la resistenza del supporto per farlo vibrare, per renderlo pittura. Un edonismo che le attuali cronache critico-militanti e mercantilistiche relegano al “vecchio”, al non più utile, allo storicamente sorpassato, assimilando la storia dell’arte a una corsa automobilistica dove a vincere deve essere sempre e solo uno, e tutti gli altri son perdenti. Campanella guarda invece con curiosità critica alle avanguardie storiche, recuperando possibili percorsi interrotti, consapevole del fatto che una porta spalancata non si deve per forza chiudere alle spalle del primo che l’attraversa, ma rimane aperta come varco predisposto al passaggio di sempre nuove idee e opportunità, al di là di ogni computo cronologico.
Può essere vecchio un giallo? E un rosso? L’unica vera avanguardia possibile oggi, allora, è forse quella di chi afferma, come ha fatto lo stesso Campanella in uno scritto apparso nel 1992 su “Art Studio Internet”, che essa rimane “questione non risolta, e quindi tuttora non esaurita, di una riflessione non codificata sulle potenzialità del linguaggio…”.
Essere all’avanguardia di se stessi, è questo l’unico obbligo da non derogare mai. Gioire e far gioire del colore, è questo quanto si deve chiedere ad un pittore. Campanella lo fa senza remore, parlando di sé con i vocaboli della pittura. Vocaboli antichissimi e sempre attuali che non temono tramonto, se non quello del buon senso.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Ritmi e colori di ieri e di oggi" di Giorgio Di Genova
(da: XXVII Premio Sulmona, catalogo, Sulmona, 2000)


[…] Tale entrée ha ovviamente condizionato le mie scelte per la presente edizione del Premio Sulmona, che è la prima del Terzo Millennio, e che proprio per ciò mi ha spinto a puntare su episodi storici, su esponenti di recenti raggruppamenti e su presenze di quel versante di ricerche che è tuttora il più innovativo, essendo filiazione della vera e grande rivoluzione che ha caratterizzato il XX secolo, cioè lo sganciamento dall’obbligo di imitazione del vero per una libera utilizzazione che ha determinato felici connubi, di cui ho voluto pure dar conto in quest’occasione. I miei invitati rispondono appunto a questi criteri di scelta, forse utili a meglio orientare i visitatori.
[…] Sia Fabrizio Campanella che la polacca Eva Pietka sono due giovani che offrono due esempi di possibilità elaborative del linguaggio aniconico. Più serrato e dinamico Campanella, che affastella i suoi segmenti cromatici in alternanza a cadenze curvilinee, per composizioni di macerie dell’esprit de géométrie, ormai distrutto nella sua integrità dalle folate neoinformali. Così del cerchio, del quadrato e dei triangoli restano frammenti nei quali Campanella tenta di ritrovare, per via di calcoli freddamente studiati, i possibili ritmi da individuare nella dialettica dei singoli lacerti delle ideali forme euclidee, i quali determinano risultati in cui echi di gestualismo vengono come placati dall’empito della proliferazione quasi neofuturista.
[…] I due giovani presentano due contrapposte polarità del versante aniconico della pittura: tanto sognata e parasurreale quella della Pietka, quanto concitata nell’orchestrazione cromo-segnica quella di Campanella.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella: Strutture – Composizioni – Studi, 1997-1998" di Laura Turco Liveri
(da “Archivio”, Anno X, n.5, maggio 1998)


Cos’è cambiato nella pittura di Fabrizio Campanella dopo la mostra personale del 1996 allo Studio Soligo di Roma? Dopo una breve ripresa della tecnica ad olio, nel primo 1997, in un recupero iconico in chiave post- espressionista, Campanella torna alla tempera acrilica in una strutturazione organizzativa del suo lavoro diversa rispetto al passato. Se prima, infatti, nel corpus delle sue opere si notavano titoli ricorrenti come Variazione o Senza titolo, questi erano comunque inseriti in un insieme di altre prove come Crocifissione, Controfigure, ArtAria, Sarajevo, il trittico Les regardants: soggetti precisi e spesso ispirati a “fatti” bene identificabili.
Il mutamento avviene nel corso del 1997 quando l’autore avverte l’esigenza di soffermarsi esclusivamente su alcune serie di dipinti, non riferibili a soggetti particolari, che indagano però la “forma” in modo sistematico. Nascono così gli Studi, le Composizioni e le Strutture: quadri completamente svincolati dal referente oggettuale che pure, talvolta, si ravvisava nei componimenti strutturali del periodo precedente.
L’accelerazione progressiva verso l’astrazione pura, infatti, che già si era affacciata nella prima metà del 1997 quando, accanto agli oli, il Nostro aveva realizzato una serie di cartoni telati per la Meeting Art di Vercelli, sfocia ora in tre diversi filoni della sua produzione, variamente ispirati alle elaborazioni già compiute.
Elemento comune, nella triplice successione degli Studi, delle Composizioni e delle Strutture, è la presenza costante della costruzione strutturale dello spazio del quadro, intesa in questo periodo come tassativo assioma della ricerca pittorica. Tuttavia, mentre nelle Strutture l’architettura del dipinto viene marcata dal pittore con grosse bande di colore solitamente più evidenti rispetto agli spazi circostanti, quasi all’opposto, negli Studi, la macchia è il punto di partenza di un procedimento che gli consente di liberare il gesto in misura maggiore, rispetto alle altre due serie, offrendogli così la possibilità di una morbida modulazione cromatica pur nella vivezza contrastata dei colori.
Di converso, le Composizioni offrono all’occhio una struttura lirica, esasperata da linee sottili gridate come una nota su un’unica corda di violino, sullo sfondo di spazi di colore intenso di ascendenze espressioniste. E’ da notare, inoltre, sempre nelle Composizioni, la presenza di un particolare tipo di blu scuro, quasi nero, ottenuto con specifici dosaggi di pigmento, e dall’effetto vellutato, usato dall’autore anche in precedenti prove. Nonostante il paradosso della definizione, lo indicheremo come “blu sangue”, forse anche per induzione da reminiscenze di quadri come Sarajevo, del 1992, in cui tale colore è predominante nell’espressività del soggetto prescelto, ma pure per una sorta di polverosità dell’impasto che esso ci suggerisce. La sua difficoltà di riproduzione tipografica, riscontrata in diverse pubblicazioni, ci ha riproposto alla mente, per inciso, problemi analoghi a quelli dei famosi gialli di Gianni Dessì o di Remo Brindisi. L’intensità vigorosa del colore, contenuta e modulata dalla composizione strutturale del dipinto, costituisce un altro comune denominatore delle performances di quest’ultima fase operativa dell’artista, che ottiene tali effetti grazie anche al rinnovato processo di stesura di più strati di colore su una stessa porzione di superficie pittorica. Ma se l’intensità, e il procedimento seguito, sono analoghi nelle tre serie, non lo sono invece, ancora una volta, i colori scelti: anche se si potrebbe trovare nel rosso il colore più ricorrente in assoluto, negli Studi e nelle Composizioni i toni più accesi si distinguono da quelli pastello degli sfondi delle Strutture, direttamente discendenti dal pannello Le grand jeu, del 1991, di cui conservano il respiro arioso; laddove infatti, paradossalmente, la struttura si fa più fortemente evidenziata, per contrasto emerge la leggerezza dei toni che la nutrono e la completano.
Riguardo alla costruzione del piano astratto del quadro, infine, c’è da aggiungere che in questo complesso di opere è più facilmente riconoscibile il processo di studio sistematico della forma, di cui abbiamo parlato più sopra e avviato nella seconda metà dello scorso anno, che riconsidera le esperienze pittoriche precedenti “prelevandone” particolari significativi e “astraendoli” dal loro contesto originario per meglio evidenziarne la struttura portante. E’ il medesimo percorso seguito per gli Studi e le Composizioni, ma con un diverso referente di origine: Les regardants e Autunnale del 1993 per i primi, i Senza titolo del 1994 per le seconde.
Al discorso strutturale è legato anche il rapporto con la musica che le opere di Campanella hanno sempre avuto. Le Strutture sono forse più vicine all’armonia compiuta di brevi composizioni musicali contemporanee. In esse avvertiamo un serrarsi della tettonica della composizione in una considerazione più consapevole e rigorosa dell’insieme mentre, negli Studi, si ravvisa il carattere propositivo e passionale dell’Impromptu e, nelle Composizioni, l’apertura sospesa di un Allegro concitato o la pacata chiusura di un possente Andante cantabile.
Per il momento ci vorremmo fermare qui. Per ulteriori approfondimenti, rimandiamo alla prossima stagione di mostre e alla prossima personale di Fabrizio Campanella.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Un diorama a tutto campo" di Carlo Fabrizio Carli
(da: XXV Premio Sulmona, catalogo, Sulmona, 1998)


Caratteristica precipua del Premio Sulmona è, ed è stata da sempre, la volontà di offrire un diorama il più vasto, variato – e quindi più indicativo – possibile della ricerca artistica contemporanea. Diorama fondato sì su criteri di qualità, tuttavia prescindendo da valutazioni di tendenza, di linguaggio, quali fattori discriminanti, come pure da istanze generazionali e perfino territoriali, in quanto alla provenienza degli artisti invitati, almeno da quando il “Sulmona” si è fatto internazionale e le partecipazioni cosmopolite si sono fatte più che gradite. Non è quindi inopportuno che il critico rinunci una volta tanto ai suoi abituali schemi d’indagine, alle proprie opzioni privilegiate, accingendosi a delineare più che sinteticamente, telegraficamente, quel cenno di presentazione e di benvenuto indirizzato agli artisti partecipanti – quel “viatico”, l’abbiamo in altra occasione definito – sul limitare della mostra. Che possa dunque davvero risultare, questo nostro, un benvenuto a tutto campo.
[…] Dalla figurazione all’aniconismo: Enrico Accatino evoca forme, spesso a matrice circolare, di forte impatto visivo e simbolico, portatrici di un’icasticità primordiale, interpreti di una ritualità sacrale. Quello di Riccardo Licata è invece un universo segnico, organizzato quasi per comparti contigui e scandito da arcaiche, primordiali emergenze. Composizioni marcatamente geometrizzate – a metà strada tra il dominio segnico e il versante astratto-concreto – sono quelle di Fabrizio Campanella, organizzate sull’associazione-integrazione di ideogrammi dall’elegante cromatismo. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Riccardo Notte
(da: “Art in Italy”, Anno IV, n. 10, 1997)


Le opere di Fabrizio Campanella possono essere definite forme progressivamente dinamizzate in un incerto spazio delle fasi. In esse, infatti, l’apparente equilibrio che l’artista ha saputo stabilire, fra la dimensione costruttiva e geometrica e la funzione dinamica dello spazio della rappresentazione, viene costantemente sottoposto a tensioni contrastanti. Queste opere sono insomma delle superfici in tensione, delle strutture dinamiche dotate di una loro intrinseca ragione logica, ma di una ragione che è almeno inconsciamente frattale, discontinua, autoreferenziale. Perciò, idealmente, ma in fondo anche realmente, tutte le visioni create dall’artista sopportano a stento il limite del quadro. Sono appunto opere senza confini: e “sconfinate” non soltanto nella loro dimensione lineare, ma anche in profondità. Campanella è un esploratore curioso ma temperato. Ed è quasi uno speleologo dell’arte che illumina il suo percorso seguendo alcune istanze nodali dell’esperienza estetica delle avanguardie storiche. Il nodo in questione riguarda ancora una volta l’inesauribile tensione fra il tempo e lo spazio, fra la dimensione eidomatica che deriva dai sensi e quella contemplativa che proviene dall’intelletto. Perciò, in questo suo procedere per gradi, Campanella si pone in una relazione interlocutoria nei confronti del Cubismo analitico, del Futurismo bocconiano, per non parlare delle istanze più recenti dell’Astrattismo geometrico. Ma nelle sue invenzioni invano si riscontrerà traccia del dominio della sensorialità tattile o materica. Al contrario, tutto in Campanella deve obbedire a una logica categoriale, e si deve pertanto inscrivere in una fondazione che nulla cede all’immediatezza propriocettiva.
Perfino in quelle opere recenti, caratterizzate dal desiderio di un calore cromatico che solo la pittura a olio può donare, si avverte nel sottofondo l’azione di una mente astratta, analitica, fortemente preoccupata del dato strutturale nascosto dal dinamismo cromatico o dal gioco delle trasparenze. Questi ultimi cimenti manifestano proprio la riduzione di forme turbolente e rastremate a superfici cromaticamente assimilabili a una media dinamica. Ovvero all’invisibile “soggetto” nascosto in ciascuna opera. Certo, a tutt’oggi, questi giochi meta-sensoriali nascono nelle regioni della chimica o nell’inesauribile campo di sperimentazione offerto dai materiali contemporanei. E comunque sono confinate sulla superficie bidimensionale della tela. Ma al fondo dell’esperienza estetica di Campanella agisce una non ancora espressa, ma già tematizzata, attenzione per altri sentieri tracciati dai mondi immateriali: quelli che per esempio entrano nel dominio della produzione elettronica. E non solo.
Ebbene, questo rapporto con “ciò che è altrove”, con tutto ciò che si pone oltre il limite proprio della pittura, costituisce una caratteristica dell’opera di Campanella. La quale è al momento un’opera caratterizzata da segni rapidi, da tagli precisi, da curvature tracciate da particelle subnucleari in reciproca interazione. Si tratta però e sempre di segnacoli di territori riservati che affiorano e scompaiono in un magma cristallino modulato sui rapporti tonali. Sono superfici che si fondono e si frammentano in ragione di un’organizzazione quasi contrappuntistica e destinata a una percezione sinestetica. Perciò, la ricerca estetica di Campanella, non può che essere a un passo da uno stadio ulteriore, e non può che sentire il richiamo di una sirena che annuncia l’universo metamorfico che già si profila all’orizzonte.
Ma l’opera di Campanella è anche il prodotto di progressive sottrazioni e ricomposizioni del segno, del colore, della forma stessa, realizzate con accanimento per meglio definire l’astratto campo di relazioni che il mondo delle percezioni tende a occultare per sovrabbondanza di sollecitazioni. Dietro la struttura superficiale deve necessariamente esistere una struttura profonda, nascosta ai sensi. E in quest’ottica il lavoro di Campanella attende un suo necessario e inevitabile approfondimento.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Domenico Guzzi
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Edizioni Soligo, Roma, 1996)


Il processo creativo di un artista – in specie di un giovane artista – è segnato dalle tensioni di una continua ricerca che, nel suo divenire, può persino condurre a esiti in certa qual misura contraddittori. Diciamo d’una ricerca di soluzioni formali, ritmiche, cromatiche, narranti. Il che vuol dire, nella sostanza, studio d’una orchestrazione cosciente d’ogni possibile latenza; conducendo ad osmosi tanto le pulsioni del profondo, quanto le sollecitazioni d’una realtà attuale e fenomenologia. Problema, quello della pittura, che prioritariamente si riassume nel render razionali e compiute valenze di svariata ascendenza. Alle quali non sono ovviamente estranee le memorie storiche, configurandosi la pittura, al dunque, come un inscindibile tutt’uno. L’opera, in sintesi, diviene testimonianza di un cosmo complesso entro cui sinergicamente s’incontrano e convergono la natura e la cultura del pittore.
Se si segue l’itinerario di Fabrizio Campanella da cinque e più anni a questa parte, ci si potrà convincere dell’essere d’una indagine costantemente in atto che lo ha – per sole apparenze – condotto, diremmo, a riconsiderare e trasgredire il suo processo inventivo. In realtà può notarsi l’esistenza di un unico criterio che, con modalità certamente discordi dal trascorso, nei dipinti attuali, tuttavia, ha utilizzato le soluzioni dei primi esiti. In questi – si fa riferimento a quadri pressoché monocromi come L’homme en question o al trittico Variazioni, entrambi del 1991 – l’impostazione è prevalentemente segnica. Rette, cerchi e semicerchi, ellissi s’intersecano e reciprocamente configgono e s’accordano nello spazio, non solo attuando una sintesi compiuta, ma adombrando, al di là d’una trama concepita sul piano, una misura delle profondità. Immagini che, a loro volta, hanno portato a significativa rastremazione le conclusioni di dipinti come Processione macabra o Icaro trafitto, del medesimo anno, e in ugual tempo annunciato il più scandito costruttivismo di Senza titolo, ugualmente del 1991.
Se dalla Processione traspare, tradotta in gesto, un’avvertibile emotività, e dal Senza titolo una tensione, di contro, al massimo rigore, quale potrà essere – ci chiediamo – il loro punto di unione?. Si pensa che il loro comune denominatore si colga nella prospettiva d’una costruzione propriamente geometrica retta per vettrici e, una volta di più, per evocazioni circolari; in quella, ancora, d’una enunciazione di luoghi e spazialità dedotte che, per esser ricorrenti, non possono davvero attribuirsi al caso. E’ così che, oltre ogni sensazione contraria, i due quadri – attraverso il filtro dell’ulteriore ricerca di quelle opere di cui s’è appena accennato – finiscano per annunciare, al di là dei rispettivi esiti cromatici, la loro sostanziale unità.
E qui pur si pone l’annunciato problema – ora risolto per citazione, ora per più sedimentato riferimento – dell’archetipo. La pittura di Campanella, infatti, non nasce prescindendo dalle memorie. Diciamo che non fa mistero, peraltro riconducendoli alla propria soggettività, dei propri innamoramenti. Così egli s’inoltra, quasi per empatia, all’interno delle grandi avanguardie. Referenti privilegiati, consci o inconsci che siano, del suo sapere.
Continuando a ragionare sulle formulazioni dei dipinti, e continuando a tener presente il 1991, anno che può considerarsi di svolta nell’esperienza del giovane pittore – basterebbe pensare al sia pur sintetico figurativismo del tempo precedente: Gli indifferenti, 1990 – si dirà di un quadro, Le grand jeu, che una volta di più collegandosi ad altri pur prelude alla struttura compositiva di quelli a venire. Si comprenderà che ciò altro non vuol testimoniare che la ribadita realtà, non univoca ma unitaria, di un fare in progress.
Qui l’impressione spaziale, la quale ugualmente si evince per linee vettrici e rinnovate tracce circolari, appare coniugata in modo maggiormente serrato, claustrofobico, quasi indipanabile. E tuttavia si fa, proprio per ciò, riferimento all’essenzialità d’una ritmica che da presso richiama quella musicale. Affermazione per cui meglio comprendere la latenza di Campanella, nonché argomento che nel prosieguo si farà ancor più convincente.
Del 1992 Happy End e Sarajevo. Mentre il pittore persiste nell’analisi della propria scansione ritmica, la cromia si attenua, soprattutto nel secondo quadro. Sul quale, indicandosi quale avvio d’una fase ulteriore, ci si dovrà sia pur brevemente soffermare. Per indicare, quanto meno, la circostanza che Campanella allenta certo palese rigore geometrico, non di meno giungendo ad accentare le possibilità di un’interna dinamica. Mediante questa inizia ad affermarsi, per la via di topoi reciprocamente compenetranti e compenetrati, l’interrogativo su quelle che potranno chiamarsi le realtà pittoriche dominanti. Diciamo, in sostanza, di un’acuita impressione echeggiante la profondità che pare concettualmente risolversi in soluzioni positive-negative. Ciò implica – ed è da ritenere che in questa fase, almeno, la soluzione sia ancora essenzialmente inconscia; diverse saranno, infatti, le conclusioni per altri e successivi dipinti – una sorta di correzione in rinnovata chiave emotiva (il che non sottintende un puro e semplice rientro in certe ed antecedenti locuzioni ma, più semplicemente, un rincontrarle) dell’assodato geometrismo. Allo stesso modo in cui l’immagine – evidenziando qualche slabbratura che, una volta di più, rinvia all’idea di movimento ma anche e soprattutto a quella di dramma – nasce e si sviluppa attorno ad un richiamo forte. Comprendendo le conclusioni teoriche di Campanella per le quali la pittura si origina, sempre, dalla realtà. Quella del quadro (ma pur pensiamo a Crocifissione, Controfigure, Les regardants, acrilici del 1993) non sarà più cristallizzata, dunque, lungo l’asse di soluzioni esatte, ma per quelle del vissuto. Sia esso concreto o meramente ideale. In altri termini si dice che le immagini assumono il dinamismo quale precipuo e sostanziale loro referente, non solo amplificando sottese sensazioni di vortice ma, per questa via, quelle di forme e colori che entrano, ognuno, nella realtà campita dell’altro. Accezione che ovviamente esprime una non casuale identità dello spazio. Concetto per più volte attraversato o semplicemente sfiorato e di cui il pittore avverte l’assoluta presenza, sia in quanto determinante interna del dipinto (è l’esistenza d’una costruzione, cioè d’una intenzionalità di equilibri) che esterna: acquisizione, attraverso trittici, di uno spazio concretamente fisico. Si arriva, così, al 1994. E ai due quadri Senza titolo. Formalmente Campanella li concepisce per una ancor più decisa frammentazione e spezzatura di luoghi e di segni, per la quale meglio comprendere origini e ragioni delle ascendenze. Accompagnando tale cadenza con una cromia che riacquista valori timbrici rialzati e non di rado finanche dissonanti. Quasi avvertendo, da quel serrato e complesso immaginare, una sorta di rimando al rumore del quotidiano. Per quanto sin qui osservato, sarà chiaro che l’invenzione del pittore, considerata nel tempo e oltre i limiti di quel che semplicemente appare, si fonda sulla logica d’una consequenziale unità.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Gaetano M. Bonifati
(da: “Segno”, Anno XXI, n. 146, marzo 1996)


A Roma, presso lo Studio Soligo, sono state esposte, nel gennaio scorso, opere recenti del giovane artista romano Fabrizio Campanella il quale, dopo una prima esperienza figurativa di ascendenza cubo-futurista, approda, in questa mostra, a una rigorosa indagine sui valori formali della linea e del segno.
Il segno, la pennellata tesa a costruire la linea e la forma sviluppa, in queste opere, una sintesi straordinariamente compatta, densa, che disarticola le certezze della finzione umana, sbriciola ogni volgarità della storia, per liberare il pensiero come evento universale nello spazio indefinito e indefinibile dell’arte. Il confine tra i due mondi, storicamente e culturalmente agli antipodi, non esiste concretamente, così come non esiste una grammatica tra segno e forma astratta. Le composizioni della pittura astratta di Fabrizio Campanella sono giochi di forma semplice,di base, che l’artista articola con estrema abilità in un insieme di interazioni tra forza e colore, intreccio ed estetica. A questi Campanella oppone l’esigenza di una grammatica, di una sintassi per dare al linguaggio delle forme una struttura, un’ossatura che pur rinunciando ad ogni riferimento oggettivo, a una realtà percepita, crea opere che restano fedeli ai principi dell’armonia estetica e adotta tutti gli strumenti che storicamente l’arte ha maturato nel corso della sua rivoluzione, a partire da quelli originari del segno come sintesi-stilizzazione del reale, del gesto come prassi rituale che fonde in un tutt’uno l’oggetto reale e la sua realtà pensata nella rappresentazione pittorica. Tutto viene abilmente dissimulato e rivelato apertamente sullo scenario della tela a svolgere un confronto tra colore e segno: dialettica che genera un linguaggio artistico, interessante per la sua rilevante potenza evocativa dell’immagine, che si fonde con la magnifica intuizione cromatica.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Silvana Nota
(da: Centodiciotto artisti in biblioteca, catalogo, Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, Torino, 1995)


Grandi silenzi bianchi e gesti pittorici come frasi musicali nello spazio. Fabrizio Campanella sa convincere con il lirismo della sua sintesi linguistica, fatta di ampie pause meditative e di segni incisivi che scavano. I suoi colpi balenanti e grafici scalfiscono l’anima ma non la feriscono, anzi galleggiano leggeri in universi lunari dove la materia si libera del suo peso. Così il suo “Danceur” si smaterializza nella successione di poche tracce nere su bianco; diventa trasparente nel suo essere percorso dalla musica senza però perdere la connotazione umana (evidente nella tensione del disegno corporeo): un’allegoria dell’innalzarsi, raggiunto con forza e con fatica.
“Sin dagli esordi – spiega una nota critica del suo curriculum – si profila in Fabrizio Campanella un deciso orientamento linguistico caratterizzato dal rifiuto di ogni concettualismo e dalla conseguente risignificazione dell’opera come “coscienza della forma”; pensiero cui si aggiunge quello di Enrico Gallian che parla, scrivendo di lui su “L’Unità” del 29 gennaio 1993, di “opere che vogliono testimoniare il conflitto sempre aperto con gli altri sperimentalismi artistici” e di “pittura contro”. Partito da una prima esperienza figurativa di ascendenza cubo-futurista, Campanella, concentrando la sua attenzione sui valori formali della linea e del segno, è giunto a risultati di purismo gestuale e a una più complessa astrazione simbolica. La necessità di un serrato confronto sui principali temi di riflessione del dibattito contemporaneo rappresenta poi le linee contenutistiche dell’artista, più volte impegnato in esposizioni e performances artistiche legate all’ambiente, ai diritti civili e sociali, e alla difesa della libertà nel mondo.

 
     
     
     
     
     
     
 

"L’astrazione concreta di Fabrizio Campanella" di Marcello Venturoli
(da: “Quadri & Sculture”, n.12, gennaio-febbraio 1995)


Giungere ultimo dopo altri studiosi ad occuparmi del pittore Fabrizio Campanella è un obiettivo vantaggio, perché intanto, l’opera dell’artista romano che a cavallo del 1990 oscillava tra un figurativo d’avanguardia cubo-futurista e un’astrazione dinamica, si è chiarita e sedimentata nei tre anni successivi, e perché, nello scegliere con maggiore risoluzione la sua giusta strada, Campanella ha molto potenziato l’immagine, per tavolozza e compiutezza.
E’ un fatto, comunque, che io oggi possa festeggiare una serie di dipinti fortemente unitari e insieme non ripetitivi, di precisa fisionomia. La quale, sola, ottiene il diritto per un accoglimento del lavoro di Campanella nella nostra attuale pluralità di tendenze.
[…] E’ una sottrazione di fatti oggettivi fino all’astrazione polivalente di significati, oppure fin da principio l’immagine cresce e si muove in un habitat non figurativo?. Queste domande sono plausibili; ma il problema del processo dall’oggetto alla massima sintesi astratta, o dalla raggiunta e stabile sintesi astratta alla sensibile figurazione, importa fino a un certo punto: ciò che persuade è l’immagine nella sua verità segnica e cromatica, compositiva e dinamica, quella felicità e compiutezza di “racconto”. Del resto bastano poche visioni del pittore sotto i nostri occhi per essere convinti di una prima ragione del suo dipingere: che più astrae e più è concreto nell’immagine, che la sua fantasia è tutta nel modo di comporre e di attingere i colori […].
Sappiamo intanto perché l’autore preferisca talvolta non intitolare i suoi quadri: perché dipingendo, anziché crearlo, questo titolo, figurativamente parlando, lo cancella; e non vuole ricostruirlo a posteriori, ma lasciare in quella cancellazione il vero titolo del quadro.
[…] Dal 1991 ad oggi, in sostanza, Fabrizio Campanella ha percorso un cammino tanto coerente quanto ascensionale, tanto ricco di fantasia quanto scevro dagli iniziali compromessi. E’ proprio questa la sua maturata convinzione nel raccontare ogni cosa per la via polivalente dei segni e dei colori, per mezzo di armoniose e tenute composizioni, dove la forza si sposa alla soavità, che riposa il suo immediato futuro.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Campanella e le avanguardie" di Jolena Baldini
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Edizioni Soligo, Roma, 1996)


Pochi artisti dell’ultima generazione come Fabrizio Campanella si sono formati e confrontati con i movimenti della pittura contemporanea che hanno rivoluzionato l’arte del nostro tempo, da Picasso a Pollock (dalla rottura della forma con Les demoiselle d’Avignon del Picasso pre-cubista ai teleri magmatici di Jackson Pollock che influenzarono tutti i settori più avanzati della pittura americana).
Campanella studia e rielabora, seguendo percorsi che guidano la sua ricerca fino agli artisti di “Forma 1”, segnando un proprio fermo, sicuro e felice tracciato. Incide con evidenza, nella sua composizione di un’arte molto personale, la lezione di Balla, eco non remota di quella visione del futuro che sembra esplodere in quadri come “La città che sale”, forse il dipinto che ha maggiormente influenzato le generazioni del secondo Novecento.
[…] Campanella ha dunque appreso la grande lezione dell’arte del proprio tempo e ce la restituisce limpidamente filtrata, alla luce di una reinvenzione che reca all’interno di ogni dipinto perfetti rapporti tra segno, forma e colore. Citerei, come esempio di prova tra le più mature, il quadro “Sarajevo”, dove l’energia del colore e del segno di Campanella determina sulla tela una sintesi efficace della ignea, ferrigna “arte della guerra” […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Luca Fantò
(da: “Next”, Anno XI, n.35, autunno-inverno 1995)


L’analisi dei movimenti artistici da Balla a Pollock sembra aver stimolato l’opera di Fabrizio Campanella che, partendo da una ricerca di solidi punti di riferimento qualitativi, ha intrapreso un viaggio che lo ha portato oggi alla maturità artistica.
L’indagine iniziale ha stimolato l’ autore alla creazione di opere che, a cavallo degli anni ’90, palesavano l’influenza dell’avanguardia cubo-futurista e dell’astrazione dinamica. I lavori di quegli anni vedono il segno dominare la tela, i colori ingabbiati in una rigida intelaiatura segnica, rarefatti. Negli anni successivi l’opera rispecchia il mutamento che in Campanella porta alla coscienza dell’opera d’arte. Il colore traborda le linee che ne segnano il passaggio e, pur mantenendosi negli schemi semigeometrici, invade la superficie. E’ il chiaro segnale di un mutamento che, dal 1991, è possibile seguire in opere come “Le grand jeu”, più tardi in “Happy End”, e quindi in “Sarajevo”, opera quest’ultima che segna il raggiungimento di un traguardo. Fabrizio Campanella si è liberato dai vincoli della memoria e, pur non rinnegandone il valore, parla con la sua voce. D’ora in poi, concetti pieni e forti verranno rappresentati. Del 1993 sono la “Crocifissione” e “Controfigure”: emotività e tensione esplodono non più trattenute dal rigore del segno, in una drammatica rappresentazione della realtà e dell’arte.
Nel 1994, in due “Senza titolo” (intitolarli sarebbe darne una caratterizzazione figurativa), il segno è definitivamente spezzato, è frammento, e il distacco dalle ascendenze del Futurismo è ormai sancito. […]

 
     
     
     
     
     
     
 

"Fabrizio Campanella" di Emidio Di Carlo
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Edizioni “Abruzzo A/Z Sessanta”, L’Aquila, 1993)


Di fronte al continuo riecheggiare di esperienze che si ritenevano consumate, avendo variamente movimentato il panorama dell’arte in questo nostro secolo, ci si domanda quali nuovi motivi possano indurre un giovane artista, oggi, a guardare nel passato. Una prima risposta è implicita nella sete di conoscenza, certamente fondamentale, per chiunque inizi un’attività. E’ noto che un buon risultato si consegue attraverso il rispetto delle regole di uno specifico lavoro.
Alla conoscenza si accompagna la riflessione: per una cosciente presa d’atto della propria condizione umana e della naturale aspirazione spirituale. Questi due motivi racchiudono ed esemplificano anche il tessuto grafico-pittorico di Fabrizio Campanella. Le esperienze manifestate nell’arco di quattro anni (1988-1991) coincidono con la conoscenza e la riflessione, i due elementi che lo hanno portato alla creatività artistica. La conoscenza è stata acquisita attraverso una corretta informazione sull’arte moderna; la riflessione, invece, dalla capacità di discernere e riconoscersi in un tessuto culturale a struttura aperta (multimediale) da cui l’artista emerge con una linea poetica personalissima.
Contrariamente a molti giovani della stessa generazione, ansiosi di proposte innovative e di successi – spesso raggiunti e bruciati nell’arco di poche settimane – Campanella resta vincolato alla figura umana: l’analizza nei suoi più reconditi significati in un processo di scomposizione e ricomposizione dei valori plastici di impostazione cubo-futurista. In “Testa”, “Nudo” (1988), “Gli indifferenti”, “Figura seduta” (1990), lo spirito di Cèzanne sembra aleggiarvi, anche in termini di policromia, mentre ampi varchi si aprono in direzione del Cubismo analitico picassiano (si pensi a “Le ragazze di Avignone” del 1907). “Figura che corre” e “Laocoonte” (1989) ripropongono il dinamismo o simultaneismo formale scoperto da Boccioni leggendo le opere del filosofo francese Henri-Louis Bergson: Essai sur les données immèdiates de la conscience, Matière et Mémoire, L’evolution crèatrice. Esiste inoltre una forte rispondenza tra le “Forme uniche nella continuità dello spazio” dello stesso Boccioni (1913), e la “Figura che corre” di Fabrizio Campanella (1989). Naturalmente con i dovuti distinguo: essendo la prima una scultura, la seconda un disegno acquerellato. In entrambe i casi si avverte l’approfondimento critico del fenomeno plastico-motorio. Nell’artista romano, alla serie di opere intitolate “Concentrazione dinamica”, seguono, come reazione, opere figurative dal soggetto statico (per tutte “Figura”, del 1990): una riflessione certamente indispensabile per maturare il successivo impianto compositivo dove gli elementi formali appaiono polverizzati, ma calamitati su una superficie intensamente luminosa.
“Laocoonte” (1990) coglie il segno del passaggio cosciente: lungi dal voler rappresentare la traduzione visiva di una delle storie sulla caduta di Troia (il Sacerdote che tentò di fermare l’entrata in città del famoso cavallo di legno e che fu ucciso, insieme ai suoi figli, dai due serpenti mandati dall’astuta Atena), in esso compare e si anima un segno grafico-pittorico che alterna spinte gestuali in un quadro razionalmente individuato; il tutto a simboleggiare una contemporanea esigenza di verità e di menzogna. La linea, sempre sinuosa, fa evidente riferimento al corpo dei serpenti che avvolgono il celebre gruppo scultoreo omonimo custodito nei Musei Vaticani e realizzato dai tre scultori di Rodi (Agesandro, Polidoro e Atenoro) nel periodo alessandrino del I secolo a.C.. Che “Laocoonte” sia l’inizio della svolta è possibile verificarlo in un progetto che diverrà documento tangibile l’anno successivo (1991). Del gruppo di opere realizzate, salvo quelle iniziali che portano il titolo significativo di “Progetto di variazione”, le altre (tutte intitolate “Variazioni”) appaiono in linea con il concetto di “astrazione” picassiano: l’opera d’arte come processo di astrazione dalla forma. Un altro pacchetto di opere dello stesso periodo, intitolate “Comizio”, costituisce un’ulteriore conferma della tesi dell’artista spagnolo poiché – come già sottolineato in precedenza – l’assunto di Campanella non disconosce le intuizioni figurative di partenza. Contrariamente al Picasso del “Ritratto di Ambrosie Vollard” (1909-10), al Severini del “Boulevard” (1911), dell’ “Autoritratto” o della “Ballerina in blu” (1912), alla “Ballerina” (1917) di Sironi, o al “Soldato con pipa” (1916) di Léger (tanto per fare qualche esempio), l’intreccio dei segni del giovane pittore romano, pur scontando il suo debito al Futurismo (sul piano della frammentazione del segno-immagine, ripetitivo e saettante nell’azione grafica), nella misura in cui si mostra predeterminato sollecita anche un possibile riscontro con le tesi filosofiche di matematica plastica dell’olandese M.H. Schoenmaekers, traslate in arte da Piet Mondrian. “Noi impariamo a tradurre la realtà della nostra immaginazione in costruzioni – così ha scritto Alfred H. Barr Jr, nel 1951, riferendosi a Matisse – che possono essere controllate dalla ragione per riacquistare più tardi, queste stesse costruzioni, in una realtà naturale ‘data’, penetrando così nella natura per mezzo della visione plastica”. Nell’arco di un anno intensamente produttivo (sempre il 1991), prima ancora della esemplificazione grafico-dinamica attestata dalle “Variazioni” erano emersi peraltro alcuni atteggiamenti interiori di natura irrazionale che avevano trovato sfogo in una serie di soggetti figurativi intrisi di umori negativi (“Processione macabra”, “Icaro trafitto”), o nelle opere “Senza titolo”, ancorate a una visione più intimistica e astratta del reale, sulla scia di un Futurismo di estrazione espressionista vivo in una cultura europea, in sintonia con Franz Marc (“Titolo”, 1913-14), Otto Dix (“La guerra”, 1914), Vasilij Kandinskij (“Improvvisazione 28 – seconda versione”, 1912), Michail Larinov (“Raggismo blu”, 1912).
Nell’opera di Fabrizio Campanella esiste insomma una sensibile attrazione alle problematiche più vive dell’arte moderna e contemporanea. Per questa ragione il suo lavoro, lontano dalle esperienze accademiche, è apparso riflessivo negli anni 1988-89, turbinoso nello spazio iniziale del 1990, ritmato e gestuale nelle ultime esperienze di natura più propriamente astratta. Quanto ai richiami al Futurismo, che come abbiamo detto sono costanti, essi consentono all’artista di ancorarsi alle solide basi della tradizione culturale italiana assestata in campo mondiale, come ha dimostrato la mostra veneziana del 1986 a Palazzo Grassi.
Da qualche tempo, con un gruppo di giovani artisti di formazioni culturali diverse (Luigi Massimo Bruno, Manuel Clemente Ochoa, Volker Klein, Alessandro Piccinini, Vassilis Kapsimalis, Francesco Vaglica), Campanella partecipa a un movimento, denominato “Presenteismo”, orientato alla ricerca di comuni assonanze linguistiche nella pittura, nella scultura, nella grafica, nella poesia e nella danza. E’ singolare come questo movimento si ponga l’obiettivo di una maturazione delle singole personalità nel lavoro di gruppo (in una logica opposta alla teoria arganiana degli anni Sessanta-Settanta) operando nel sociale e rileggendo il “passato” (come “memoria”) in un “presente” che guarda al “futuro” (come “proiezione”). “L’architettura – ha detto Le Courbusier – è condizionata dallo spirito di un’epoca e lo spirito di un’epoca è fatto dalla profondità della storia, dalla nozione del presente, dal discernimento dell’avvenire”. Sono parole che rispecchiano bene anche l’opera pittorica di Fabrizio Campanella, sebbene attento a una diversa tecnica di espressione artistica.

 
     
     
     
     
     
     
 

"Appunti su Fabrizio Campanella" di Silvano Giannelli
(da: Fabrizio Campanella, catalogo, Galleria “La Gradiva”, Roma, 1992)


Intellettualmente strutturati, di materia polita, sapiente, perfino raffinata: ecco la prima impressione che mi hanno fatto i dipinti e disegni – non molti, ma significativi nella loro precoce coerenza di linguaggio – che il giovane Fabrizio Campanella ha voluto mostrarmi nel suo studio romano. Il gruppo dei lavori osservati nell’occasione rappresentava il meglio, suppongo, di una disciplinata applicazione biennale.
In quale matrice di cultura pittorica quelle prove s’innestassero non potevo non domandarmelo, quasi per antico vizio, d’istinto. Altrettanto istintiva mi rimbalzava evidente, nella fattispecie, una risposta plausibile. L’arco di riferimenti esemplari entro i quali Campanella situa (consapevolmente o no) i movimenti della propria esperienza formativa, sottende molteplici elementi del futurismo geometrico decorativo (da Balla a Depero, per intenderci), senza rinunciare peraltro a una buona dose di quel razionalismo spinoziano che Mondrian sublimerà in archetipi di misticismo astratto, distante, assoluto.
Con questo non intendo agganciare al collo di questo giovane artista alcun contrassegno condizionante, emblema di sudditanza psicologica o di scolastica maniera. So anzi che egli è per sua buona fortuna destinato a sbugiardarmi, mi auguro nel breve periodo. E lo farà nella misura che sarà capace di svelare, a se stesso, la piena consistenza del proprio mondo di immagini, contraddistinto fin d’ora da un autentico esprit de finesse. Tuttavia, in questa promettente fase d’avvio, mi sembra onesto compromettermi dichiarando entro quali parametri ideali oscilli, a mio parere, la sua inquietudine.
Tutto questo, a ogni modo, attiene alla sovrastruttura culturale presunta, quale possiamo intravedere al momento; la quale serve in fin dei conti a poco o a nulla, visto che il genio dei padri d’elezione non basta a garantire alcunché ai figli, bisognosi sempre di qualche prestigiosa adozione. Conta molto di più, invece, cercare di enucleare – ove sussita – il sigillo che caratterizza ogni personalità sorgente. Per Campanella, a me pare di coglierlo in una spiccata vocazione alla forma pittorica intesa come adaequatio del segno e del colore a una luce, a una verità interiore. Ed è questo il punto sostanziale sul quale vale la pena di scommettere, trattandosi non di un dato variabile, ma di una costante.
Non a parole, ma con la forza nativa che pervade i suoi migliori lavori, Fabrizio Campanella mi convince di una cosa: per lui il cervello, o meglio la coscienza, sono il centro del mondo, il motore del mondo. Si tratta di un fondamento costitutivo della sapienza greca, travasato nella cultura dell’Occidente cristiano dalla splendida mediazione tomistica, e che personalmente mi riavvicina l’immagine di un caro maestro del nostro secolo, Felice Casorati. Ebbene, quel principio era così connaturato in lui, discendente da una famiglia di scienziati e di matematici, che egli aveva tratto a suo motto e divisa il trinomio numerus, mensura, pondus.
Per Campanella non c’è bisogno di indagare sull’ascendenza dei suoi cromosomi, né importa sapere se abbia fatto studi di matematica e di musica. Basta il suo lavoro, suffragato da quant’altro egli manifesti di sé (linguaggio, gesti, comportamento), per indurmi a ritenerlo dotato di un intelletto di segreta musicalità. Nei suoi dipinti e disegni, così armonicamente calibrati, c’è qualcosa che si potrebbe ancora definire “classico” nel senso illuminante che Paul Valéry restituì a questo termine.
Classico – c’insegnò appunto Valéry – è colui che, nell’intero corso del procedimento artistico, ci appare come accompagnato e vigilato da un’ombra che è il suo interno, inseparabile critico. Questa forma di misteriosa simbiosi consente di attingere a quei “valori della durata e della calma” che soli garantiscono incidenza e persistenza allo spirito che rinnova la vita dell’inesauribile tradizione. Mi avvedo che, senza accorgermene, sto per toccare qualche filo di alta tensione polemica. A invocare oggi i “valori della calma e della durata” si rischia di farsi ridere addosso. Ci pensi dunque anche il mio giovane amico Campanella, e si guardi bene dal farsi attrarre nella subdola trappola che, senza volere, sto preparandogli, col solo riesumare argomenti di per sé pericolosi, più che inattuali o archeologici. Non vorrei davvero pregiudicargli, con le mie incaute extravaganze in domini considerati tabù, la buona riuscita mondana alla quale egli meritatamente può aspirare e va incontro.
A Fabrizio Campanella auguro riconoscimenti e successo: anche in questa nostra strana repubblica delle arti e delle lettere che liberalmente mi costringe ora, per non recar danno a chi stimo, ad autocensurarmi. Il più rimane sempre affidato al silenzio.